
“Le nozze di Figaro” di Mozart, con il famigerato libretto di Lorenzo Da Ponte, si annovera tra le opere più rappresentate al mondo e che, necessariamente, più di altre sconta una vasta e variegata pluralità di allestimenti. Alla Scala si era soliti assistere alla produzione di Giorgio Strehler, raffinata ed elegante, realistica e d’effetto come solo le grandi regie riescono ad essere e ancora oggi fresca e suggestiva.
Frederic Wake-Walker, su cui posavano le aspettative di gran parte del pubblico, si è scontrato con un’infruttuosa ostinata ricerca del nuovo e del sensazionale, perdendo di vista l’opera e costruendo un labirinto interpretativo quasi sempre fuori tema.

Le letture di questo suo lavoro si sprecano, quella più concreta ha visto una sorta di dietro-le-quinte di un teatro-nel-teatro, vale a dire un metateatro alla seconda. In effetti dei cinque elementi essenziali che abbiamo ravvisato nella regia, almeno tre suggeriscono questa lettura.
Il primo è l’assenza di fondali, con i macchinisti al lavoro in bella vista e gli sconfinati spazi del palcoscenico bene illuminati, con tutto ciò che di antiestetico c’è (cavi, proiettori, porte antipanico, tralicci, cavalletti ecc…).
Il secondo è la “rottura” dell’espediente teatrale alla Ponnelle delle scene girevoli. Su un largo sostegno circolare ruotano infatti due grandi apparati scenografici, ma questa volta non si nascondono a vicenda, bensì si svelano reciprocamente i retroscena fatti di supporti di legno, passaggi e tramezzi attraverso i quali si muovono i personaggi.
Il terzo, infine, è la continua e rumorosa presenza di comparse del tutto estranee alla storia. All’inizio a comparire è un vecchio assonnato, con in mano lo spartito integrale dell’opera, seduto sulla sinistra come fosse un suggeritore d’altri tempi, poi, per tutto lo spettacolo, sono giovani e belle donne vestite di nero, occhiali e cartellette alla mano, che sembrano dirigere i lavori di palcoscenico, forniscono i materiali e gli oggetti di scena e provocano rumori in occasione di alcune specifiche azioni (es. chiusura di serrature, schiaffi).

In contrasto con questi elementi, ampiamente discutibili, ve ne sono due che invece stridono con l’impianto che sembrerebbe originarsi.
Uno è la pressoché unanime coerenza dei costumi secondo uno stile classico rivisitato in chiave provocatoria. Zimarre, calzamaglie, tricorni, gorgiere, paniers e parrucche eccessivi o addirittura stravolti, che costruiscono un immaginario settecentesco assurdo e grottesco, ma in qualche modo organico.
L’altro è la recitazione densa di gag da commedia dell’arte e di una mimica da cinepanettone, come se Le nozze di Figaro fossero nient’altro che uno spettacolino da vaudeville osé: gli attori però interagiscono alla pari e senza turbamento con la pletora di comparse.
Le questioni che il metateatro pone restano del tutto irrisolte, in maniera fastidiosa e distraente: chi è “dentro” e chi “fuori” dallo spettacolo? Qual è il confine? Forse che sia tutto il Teatro ad essere coinvolto? In che modo allora ci può essere di interesse la “folle giornata” delle nozze del birbo Figaro?
Il cast pure non ci è sembrato granché in forma.
Voce a stento udibile quella della contessa, Eleonora Buratto, pure di grandi capacità espressive. Istrionico, ma non sempre a proposito, Markus Werba, Figaro. Debole per espressività e timbro Simon Keenlyside, il Conte d’Almaviva.
Si salva la Susanna di Golda Shultz, che conquista un’attenzione da primadonna per vivacità e destrezza della voce.
Come sempre eccezionale Marianna Crebassa, en travesti nei panni di Cherubino, che regala forti emozioni nei due numeri arcinoti della sua parte: “Voi che sapete” e “Non so più cosa son, cosa faccio”.
Cameo pregevolissimo di Theresa Zisser, Barbarina nella pregevolissima cavatina “L’ho perduta me meschina”.
Coppia affiatata e di spessore nei panni dei due antagonisti di Figaro, suoi genitori inconsapevoli, Marcellina, Anna Maria Chiuri, e Bartolo, Andrea Concetti. Voci potenti ed espressive.
Voce defilata, ma di buona verve, Kresimir Spicer nelle vesti di Basilio e Don Curzio. A lui sono state fatte inscenare gag piuttosto ridicole.
Molto brave le due allieve dell’Accademia Francesca Manzo e Kristin Sveinsdottir, nel brevissimo duo delle contadine.
Il Coro ci è apparso stranamente un poco stanco e impreciso, forse sollecitato da un programma fittissimo e molto eterogeneo nel finale della stagione scaligera.

Salviamo a pieni voti la direzione del maestro Michele Gamba, sublime e delicatissima. Il primato della musica accanto ad una scrupolosa attenzione per le voci, con il garbo e la gentilezza che le note di Mozart impongono all’esecuzione. Niente lirismi e niente barocchismi, ma una lettura onesta e precisa dello spartito.
L’orchestra segue la bacchetta di Gamba con assoluta perfezione e il basso continuo, costituito da fortepiano e violoncello, interpretano con squisita eleganza l’accompagnamento ai recitativi.
Dal pubblico inevitabili fischi e “bu” alla regia.