La Traviata del racconto teatrale

Al Teatro San Carlo di Napoli "La Traviata" per la regia di Lorenzo Amato, diretta da Daniel Oren

Gigi Proietti diceva (dice ancora, per verità), con una di quelle frasi che racchiudono, nella loro estrema ed efficace sintesi, pagine e pagine d’annosi trattati, che in teatro tutto è finto, nulla è falso: non si spaccia, in teatro, una realtà fasulla e pataccara e pezzotta che inganna l’occhio il cuore e il cervello, la finzione, l’artificio scenico, sia funzionale alla verità, la indichi, come il dito la luna, perché meglio si possa riuscire a leggerla, quella verità e quella realtà, mettendoci magari, regista e scenografo, come diceva Campese avatar d’Eduardo, in quella determinata scena, qualche imperfezione, in quell’altra qualche particolare straniante, qualcosa, insomma, che costantemente, pervicacemente, efficacemente ci rammenti che ciò a cui stiamo assistendo è teatro, imperfetto e parziale specchio della vita, giammai fasullo artefatto di verità.

Ora direte, che c’entrano Proietti ed Eduardo con Verdi e Traviata? C’entrano, non foss’altro – e a volte qualcuno dimentica questo fondamentale quanto elementare assioma – perché Verdi e Traviata sono teatro, prima d’ogni altra cosa; in secondo luogo perché, in quest’ultima ma certamente non ultima incarnazione di Traviata, in scena in questi giorni al mio bel San Carlo, il benintenzionato regista Lorenzo Amato, il talentuoso scenografo Ezio Frigerio con la sostanziale ed essenziale complicità del Maestro Daniel Oren, il teatro diventa certamente uno dei due capisaldi su cui s’impernia la loro personale narrazione del capolavoro verdiano.

Son teatro i fondali, di legno tela e cartone alla maniera antica, il primo, durante l’ouverture, che rinvia ad una notturna cattedrale chiaroscurata nell’irresoluta luce lunare, mossa, sgranata, incerta come una delle Cattedrali di Rouen, se Monet ne avesse concepita una in luce notturna, è teatro il fondale del primo e quarto atto, la severa e ombrata sala della casa di Violetta, dai grandi finestroni in stile eclettico che pesanti cortine e tondeggianti timpani rimandano all’essenza di palchi teatrali, nel silenzio che precede la rappresentazione, spazio scenico sui lati delimitato da rossi sipari aperti, è teatro lo sfondo del secondo atto, il cancello della casa di campagna presso Parigi che, insieme ad aguzzi cipressi delimita l’ambito di un riposato giardino, tanto ingenuo nella sua concezione e nel suo disegno da suscitare commozione, ripensando alle tante province dove il teatro vive, perché, come dice sempre Campese, l’esperienza tecnica e artistica di uno scenografo, anche se è geniale, non potrà mai dare tante versioni figurative per quante se ne creano gli spettatori, ognuno per conto proprio e in conformità dei propri gusti, della propria sensibilità e perfino dello stato d’animo che attraversa in quel momento, è teatro la galleria nel palazzo di Flora, infilata vertiginosa di rossi sipari che chiudono lo spazio affocato e ansiogeno, mentre dall’alto velari e scene minacciano continuamente di scendere e cambiare scena, atto, azione.

È teatro, soprattutto, il suo aprirsi e chiudersi – perché come dice Alessandro Toppi, il teatro vive, esiste solo durante se stesso: la sua vita è la sua stessa durata, la sua durata è la sua stessa presenza: nasce, allora, il teatro, con l’eterno risvegliarsi del silenzioso, attonito, pervadente inizio, giocato sulle note raccolte del primo preludio, come il prender vita di Violetta – prima senza coscienza abbandonata su lungo tavolo dove poco più tardi si celebrerà la libagione dei lieti calici, quasi ara sacrificale su cui giace come vittima espiatoria – da parte di sei figuranti in frac; li ritroveremo alla fine, questi sei personaggi, al culmine dell’agonia di Violetta, chiudere letteralmente il teatro, far morire la scena mentre l’orchestra suona le ultime note, implodere colori e luci per lasciare il posto alla visione di ciò che sta sotto, la grezza architettura che, come scheletro umano, permetteva alla scena di stare in piedi e vivere.

Tra quest’inizio e questa fine, il teatro ha riportato in vita, un’altra volta ancora, la storia di Violetta, racconto scandaloso di redenzione: perché poi, questo è l’altro caposaldo su cui fondano, regista, scenografo e direttore, il loro far teatro, la concezione verdiana della redenzione, del tutto diversa da quella di Dumas. In Traviata Verdi rappresenta due formidabili forze che si fronteggiano, da un lato il fronte familiare e benpensante e provinciale che s’incarna in Germont, dall’altro quello libertino e godereccio e volgare che è rappresentato dal mondo degli amici di Violetta. Ambedue queste visioni, a pien diritto componenti entrambi della società francese dell’epoca, soffrono dei loro egoismi e miserabili ipocrisie.

Violetta lascia la vita eccentrica e brillante di prima ma – al contrario di Marguerite, La Dame aux camélias di Dumas da cui deriva – rifiuta di sottomettersi al codice morale borghese, compiendo invece una scelta terza, che è quella dell’amore. Scelta quanto mai “romantica” – al di là del senso deteriore da fiction televisiva assunto oggi dal termine – e del tutto inusuale e rivoluzionaria.

Chi si converte, attraverso un percorso del tutto sconosciuto al romanzo di Dumas, è semmai Germont: il suo personaggio, praticamente inventato da Verdi sulla poche tracce di Dumas, la sua dolorosa dignità, è il perno su cui si costruisce infatti l’apoteosi finale di Violetta, che non si pente, perché semplicemente non ha niente di cui pentirsi: questa formidabile intuizione, che è totalmente verdiana, è lo scandalo intollerabile dalla società dell’epoca, che fa di Violetta un personaggio universale e moderno del tutto diverso da Marguerite, costretta, lei sì, ad arrendersi alle ipocrisie della società e a trovare unico riscatto nella morte.

Al contrario di certi celebrati allestimenti degli ultimi anni di Traviata – da parte di registi più avvezzi al cinema che al teatro – forse più visivamente attrezzati, ma in cui questo significato veniva del tutto travisato, il rispetto del pensiero di Verdi è questa volta pieno, la sua trasposizione efficace, anche grazie alla mediazione di quel “velario di pioggia e lacrime”, luccichìo d’acqua che ininterrottamente scorre per tutta la durata della rappresentazione, ovattando gli sfondi, giocoforza creando un di qua del presente fruibile, un di là della teatralità possibile o vagheggiata: al di là del mero dato metereologico, oltre il banale significato di malinconica tristezza evocato da una morte giovane – “Gesù, ma comme chiove!”, verrebbe da dire con Libero Bovio – a me l’acqua fa venire in mente però soprattutto il cambiamento, il mutar degli animi col mutar degli eventi, che investe tutti i protagonisti.

L’acqua, il suo ciclo, il suo inarrestabile scorrere, diventa così metafora di crescita e cambiamento: non è solo il cuore di Violetta che muta per un inenarrabile atto d’amore – anche se la sua maturazione è certo la più complessa; ci sono anche Alfredo e Giorgio, i due Germont, che dovranno percorrere un lungo cammino prima di arrivare a comprendere che il prezzo della loro libertà è altissimo, la vita stessa di Violetta.

Violetta e Alfredo che in questo allestimento ha voce, corpo, anima, di due cantanti che hanno dalla loro un enorme vantaggio: la dolce ala della giovinezza, la stessa età dei protagonisti.

Mentiremmo se dicessimo che la voce di Maria Mudyryak non sia esente da difetti: una lieve ingolatura, un leggero vibrato che interviene talora, una debolezza sulle tessiture basse; questa giovane ottima cantante possiede però sicuramente tanta intelligenza da evitare sapientemente, per quanto possibile, i suoi punti deboli, interpretando con sicurezza invidiabile per l’età sua un tal personaggio che, anche dal punto di vista psicologico e drammaturgico, oltre che, naturalmente, musicale, presenta tante difficoltà: ne esce una Violetta fra le migliori che io ricordi, elegantissima nei modi e dalla perfetta presenza scenica, di gran temperamento (basti vedere la foga con cui scaraventa bottiglie, oggetti e il povero Alfredo lontano da sé, o come si comporta col Barone che al terzo atto vuol trascinarla fuori dalla sala da gioco), senza bamboleggiare mai, senza un sol gesto che possa essere interpretato come una, pur fugace, caduta di stile e di gusto.

Di fianco a cotanta Violetta, l’Alfredo del giovanissimo Vincenzo Costanzo, diversamente dalla sua partner, manifesta invece un qualche impaccio, e qualche pecca nell’intonazione: il cantante, già ascoltato altre volte, ha comunque voce bella da tenore lirico – sommessamente mi permetto di ipotizzare impiegata male – e mostra qualche défaillance anche sul piano attoriale; peccato, perché lo squillo è bello, con buona capacità di smorzare i toni. Giorgio Germont è Vladimir Stoyanov, molto applaudito dal pubblico, vocalmente all’altezza pur se piuttosto sbiancato nel registro acuto: un’interpretazione comunque all’altezza del ruolo, che esprime al meglio, grazie alla solida professionalità di questo cantante, le ambiguità e il percorso del personaggio. Che dire del Maestro Oren, se non che la sua direzione dell’Orchestra del Teatro San Carlo è stata ineccepibile? Come sempre trascinante, appassionato, intenso, bandendo ogni inutile leziosità, cercando e ottenendo, dall’ottima Orchestra e dal Coro del Teatro San Carlo diretto al meglio da Marco Faelli, passione e pathos, intensità e profondità dei sentimenti, senza paura dell’effetto o dell’eccesso. Ottimo, per finire, anche la Coreografia del terzo atto, curata da Giancarlo Stiscia e che ha visto protagonista, come Matador, il Direttore del Corpo di Ballo del Teatro San Carlo, Giuseppe Picone.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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la-traviata-del-racconto-teatraleGiuseppe Verdi <br>LA TRAVIATA <br>Opera in tre atti <br>libretto di Francesco Maria Piave dal dramma di Alexandre Dumas La dame aux camélias. <br> <br>Direttore, Daniel Oren <br>Regia, Lorenzo Amato <br>Scene, Ezio Frigerio <br>Costumi, Franca Squarciapino <br>Luci, Fiammetta Baldiserri <br>Coreografia e Aiuto regia, Giancarlo Stiscia <br>Assistente alle scene, Riccardo Massironi <br>Assistente ai costumi, Anna Verde <br> <br>Violetta, Maria Mudryak <br>Alfredo, Vincenzo Costanzo <br>Flora, Giuseppina Bridelli <br>Annina, Michela Petrino <br>Giorgio Germont, Vladimir Stoyanov <br>Gastone, Orlando Polidoro <br>Il barone Douphol, Roberto Accurso <br>Il marchese D’Obigny, Nicola Ebau <br>Il dottor Grenvil, Francesco Musinu <br>Matador, Giuseppe Picone <br> <br>Nuova Produzione del Teatro di San Carlo <br>Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo <br>Lingua, italiano con sovratitoli in italiano e inglese <br>In scena dal 27 febbraio al 4 marzo 2018 <br>Napoli, Teatro San Carlo, 25 febbraio 2018, Prova generale aperta al pubblico