Il fulgore e il turbine: Gioconda e un mazzolino di pensée

Al Teatro San Carlo trionfa la Gioconda di Anna Netrebko, Jonas Kaufmann sottotono, Ludovic Tézier grande attore. Direzione musicale spenta, regia non pervenuta

Mettiamola così: uno dei più prestigiosi teatri lirici del mondo ha avuto l’opportunità di mettere insieme alcuni tra i migliori interpreti della contemporaneità e ha colto l’occasione ghiotta e irripetibile come meglio non avrebbe potuto. È, in estrema – e imperfetta, ovviamente, vedremo in dettaglio perché – sintesi, ciò che sta succedendo in questi giorni a Napoli, al Teatro San Carlo, con l’annunciato evento all star di metà Stagione: La Gioconda di Amilcare Ponchielli che torna a far parlare di sé già sarebbe da solo un ottimo argomento di discussione, visto che a Napoli, per esempio – per non andar troppo lontano – mancava da ben 47 anni. Se poi uno si mette a riflettere che – coincidenza? congiunzioni astrali?  complotti internazionali? – lo stesso ormai poco frequentato titolo è stato messo in scena nemmanco quindici giorni fa nientemeno che al Festival di Pasqua in quel di Salisburgo – dove non era mai stato rappresentato – con un cast stellare, in gran parte sovrapponibile a quello napoletano, viene il dubbio che non di mera combinazione si tratti: in tutta evidenza La Gioconda – con tutti i suoi dannati limiti, con tutte le cautele del caso, con tutti i distinguo legittimi e dovuti – è opera che attira come il miele voci importanti, dotate di mezzi non comuni.

Perché, se pur scritta, come di consuetudine per l’Autore – di cui poco o nulla di rimarchevole rimane alla nostra età, tranne questa pagina – tra mille tormenti e ripensamenti e pentimenti, Gioconda possiede, come non molte altre nella storia del melodramma italiano, musica dalla facile e spontanea orecchiabilità, dall’intenso sapore melodico, costruita su un’impalcatura di versi – che Arrigo Boito, con lo pseudonimo anagrammatico di Tobia Gorrio, trasse da quell’inesauribile miniera di truculenti drammoni che Victor Hugo gentilmente forniva alla bisogna – che lo stesso compositore giudicava estremamente confusa, retorica, rutilante al massimo grado e traboccante di sentimenti forti e di veleni, di sete di potere e di incrollabili desideri.

Fu per questo, probabilmente, nell’incapacità di tener a bada i bollenti spiriti del librettista, incanalandoli sapientemente verso la costruzione di una efficace drammaturgia – come riuscì invece a Verdi una decina d’anni dopo, con il miracolo d’Otello – che Ponchielli fu in qualche modo costretto a lavorare più sul cesello del pezzo unico che sull’insieme, più sulla romanza che sul dramma. È da questo, probabilmente, che deriva quell’impressione un po’ stranita che si prova ascoltando La Gioconda, in cui l’ormai acquisita modernità musicale – stilemi che già anticipano la stagione che sarà – registra tuttavia un inatteso ritorno all’ormai superato schema della forma chiusa, tra l’altro sottolineato ed enfatizzato, questo insistito sguardo a forme e modi quasi donizzettiani, da inusitate eco quasi bandistiche e dall’approssimata orchestrazione.

Il risultato è che, più che una forma compiuta di Oper und Drama, finisca per somigliar, Gioconda, ad una galleria di musica – tanta, bella e brutta, e tutta insieme – e pezzi chiusi, romanze anche tecnicamente d’impervia costruzione, concertati sospesi e cori di voci bianche, accanto a brani d’altro genere, come la celeberrima Danza delle Ore: una sorta d’affastellato e variopinto grand-opéra in sedicesimo, senza possederne tuttavia né il respiro né tantomeno l’ambizione. La diremmo, se non temessimo l’adontarsi irato di qualche adoratore, musica nazional-popolare, che s’attagliava giusta giusta al gusto dell’Italietta che si andava componendo allora, tanto tanto tronfia e un po’ vuota dentro, così simile, a guardar bene, in fondo, per tanti versi, all’Italietta del nostro limitato e un po’ angusto presente, così povero di sguardi e d’orizzonti.

Così, sembra composta, la Gioconda, apposta per dar risalto alle gran voci, poco curandosi d’ogni drammatica verosimiglianza, d’un minimo di coerenza teatrale: è soprattutto la voce dell’interprete principale che svetta, in una sorta di continuo fiammeggiare al calor bianco, cantando l’amore, la morte, la gelosia, la vendetta, un fulgore e un turbine che, da sempre, sa esser, a modo suo, sublime croce e delizia dei melomani, sintesi, nel bene e nel male, di un certo modo d’intendere il teatro in musica. Inutile nascondere che proprio queste che – a seconda dei punti di vista – possono esser considerate virtù o difetti, sorta d’ibridazione e intrinseca contraddizione, se da un lato hanno attirato grandi cantanti che si sono cimentati nelle impervie difficoltà dei suoi brani, hanno tenuto invece ben lontano da quest’opera, proprio per queste stesse caratteristiche, salvo salutari eccezioni, nella seconda metà del Secolo breve, grandi direttori d’orchestra.

Detto ciò, si comprende come, avendo il destro di metter insieme un cast che preveda almeno tre interpreti fuoriclasse – nel ruolo soprattutto del soprano protagonista e poi del tenore e del baritono – e di seguito, accanto a questi, almeno due o tre cantanti di prim’ordine, l’opera ideale da offrire all’attenzione del pubblico non potesse essere altro, a questo punto, che proprio quella che più concede sfarzo e mostra alla voce e al canto, la nostra Gioconda: se poi, come nel caso nostro e pure a Salisburgo, anche il direttore d’orchestra per ventura risultasse anch’egli un fuoriclasse, o almeno d’ottimo livello, finirebbero per aprirsi, per questa Gioconda, inusitati orizzonti, lustro per l’orecchio e per il cuore.

Qui a Napoli Pinchas Steinberg conferma – e come potrebbe essere diversamente? – la sua grandissima professionalità: musicista coi fiocchi, ben sperimentato e di lunga e gloriosa carriera, dirige con precisione e assoluta ragionevolezza la nostra Orchestra del San Carlo che, probabilmente, sente l’adrenalina della gran serata e risponde con altrettanta professionalità. Certo, il direttore israeliano ribadisce pure, insieme alla sua accurata diligenza, lo scarso feeling con l’opera italiana, probabilmente si tratta proprio di questione di pelle, per cui le stesse virtù che ce lo fanno tanto apprezzare quando dirige una sinfonia mitteleuropea impediscono la passione e l’abbandono così necessarie alla musica del paese del sole, e quando questa non è certo un capolavoro d’introspezione psicologica, come in questo caso, il risultato è quel che è, onesto ma nulla più, più che altro la musica diventa la colonna sonora un po’ spenta dell’azione scenica che si svolge davanti ai nostri occhi.

E, d’altra parte, sul palcoscenico gli eccessi e i difetti del libretto dello scapigliato Boito prima della verdiana conversione certo non vengono corretti o risolti da una regia, come quella di Romain Gilbert, molto spesso del tutto assente o non pervenuta: il regista francese lo avevamo già conosciuto, qui al San Carlo, qualche anno or sono, illustrare la storia di Samson et Dalila riproducendo la storia biblica di Camille Saint-Saëns con una didascalica e presepiale pedanteria  – con un surplus di kitsch perfino superiore alla materia – quanto descritto da musica e libretto con una modalità che potrebbe risalire tranquillamente a cinquant’anni fa o più, tutto cartapesta e poca sostanza. Non possiamo che (in)felicemente confermare l’impressione di allora, la regia non ha idee o, se le ha, le pratica in modo talmente sconcertante da produrre risultati del tutto scoraggianti: l’unica trovata degna di tal nome partirebbe – leggo – da una riflessione su un verso del libretto, riferito ai veneziani e alla loro città: …e cantano sulle loro tombe!.

Di qui, immagina, la fervida fantasia sua, l’invenzione lugubre di una città costruita sulle tombe, di una laguna piena di cadaveri, di corpi che lentamente la putrefazione trasforma in fango: e lo vediamo, di tanto in tanto, quel fango e quel pus cadaverico, portato su da botole opportunamente aperte e chiuse alla bisogna. Per fortuna, occorre dire, l’idea è realizzata in modo talmente criptico che tutto questo non è immediatamente percepibile dallo spettatore, rimane lo sconcerto – e l’incomprensibilità – di veder tutto quel fango nero insozzare vesti opportunamente candide, come quella della protagonista nel finale, oppure, come capita a Badoèro, aprir la botola per tirarne fuori ossa assortite di svariata forma e origine – evidentemente ancora non ancora trasformate in poltiglia oscena – e, alla fine, un cranio ancora ben conservato, con cui gioca a far l’Amleto come fosse quello di Yorick.

Al di là di questa ributtante trovatina, non c’è molto altro, la scena costruita da Etienne Pluss prevede una Venezia opaca e grigia, evidentemente in linea con l’idea cimiteriale appena esposta, che viene letteralmente riempita fino all’inverosimile da personaggi che vestono i coloratissimi – per elementare contrasto, come in un qualsivoglia sceneggiato televisivo da prima serata – costumi dovuti alla matita di Christian Lacroix. A costituire il grosso di questa variopinta folla c’è il Coro del San Carlo, naturalmente, diretto da Fabrizio Cassi, che finalmente trova musicalmente la sua giusta misura, pur se scenicamente rimane, per la latitanza imperante di regia, ammassato e spesso come schiacciato in un’unica forma monodimensionale: considerazioni che valgono pure, pari pari, per il Coro di Voci Bianche diretto da Stefania Rinaldi. Ma poi ci sono pure i mimi – trovata un po’ stinta – che sono saltimbanchi da strada – acrobatici e mangiafuoco – arlecchini saltellanti che arrivano a indossare pure una testa da leone – ridicola personificazione delle Boche de Leon strumenti della delazione della Serenissima – oppure son le maschere della Commedia dell’Arte, Pantalone, Colombina, il detto Arlecchino (compare pure un Diavolo e, solo per un attimo, perfino un Pulcinella) che molto, evidentemente, ispirano la regia, fino a metterle al centro della già citata Danza delle Ore, che vede impegnato il Corpo di Ballo del San Carlo, diretto da Clotilde Vayer, in una coreografia di Vincent Chaillet che banalissimamente riproduce il triangolo amoroso tra Badoèro, Laura e Enzo.

Sono le cosiddette masse teatrali – che ancora qualcuno, in tutta evidenza, continua a considerare, per l’appunto “masse” – alla fine, a portare su di sé il peso dello spettacolo, a dar lustro agli occhi e al cuore: e tutta questa folla, a parte i ballerini, che riempie e opprime, rimane tuttavia un po’ sperduta sulla scena, non si cura la regia anche dei movimenti e dell’azione drammatica, i cantanti vagano un po’ a casaccio qua e là, contando solo sulle proprie risorse, c’è, in modo evidente, chi se la cava meglio e chi molto peggio, non sapendo neppur dove mettere le mani; ma tant’è, in tutta evidenza questa regia, che sicuramente piacerà moltissimo a chi auspica una fantasmatica “fedeltà” al libretto, assolve sicuramente benissimo il suo compito, quello di fare un deciso passo indietro, di rimanere quanto più possibile nell’ombra anonima e anodina, di servir solo come (non) splendida cornice alla galleria di voci che poi è l’essenza stessa di quest’opera.

E tuttavia, perfino sul piano delle voci qualcosa alla fine non funziona: per Enzo Grimaldo non sembra esser serata, qui sulla laguna, Jonas Kaufmann offre una prova sottotono rispetto ai suoi standard, probabilmente non forza, tendendo, soprattutto nella prima parte, al risparmio evidente della voce. L’accorato canto di Cielo e mar esce allora così, alla fine, di certo lontano dall’italica tradizione, inedito nella ricercatezza dei ricami della voce, il pubblico applaude l’interprete eccelso – nella seconda parte migliora un po’ – e tuttavia diverso dall’eroico tenore visto e ascoltato in questo stesso teatro nel panni d’Otello o di Siegmund.

In spolvero Ludovic Tézier, un Barnaba molto terreno e punto mefistofelico che trova in Monumento la possibilità espressiva di cui necessita il personaggio, comunque molto lontano dalle sottigliezze psicologiche di un qualunque baritonale personaggio verdiano: una prestazione che si colloca senz’altro ben al di sopra della media, il colore della voce è bello come sempre, vellutata la linea di canto e sul piano espressivo riesce perfetto attore, è di certo sulle sue spalle che lo spettacolo regge drammaturgicamente, soprattutto nella prima parte, in cui è praticamente sempre in scena. E quando è costretto, per colpa di una incosciente regia, a cedere pure lui al grand guignol che impazza e imperversa, lo fa con classe innata e con intera, visibile, palpabile consapevolezza del limite e della decenza.

Cosa che riesce un po’ più difficile a Alexander Köpeczi, basso ungherese dalla possente e profonda voce – dai toni, occorre dirlo, un po’ forzati – per la prima volta nel Teatro nostro, costretto nei panni d’un Alvise Badòero del tutto incredibile, non solo per la riesumazione di cadavere di cui abbiam già detto, e nemmeno per la frettolosa occultazione del corpo della moglie al di sotto del pavimento della stanza – vocazione necrofila, in tutta evidenza – ma soprattutto per una certa aria da oligarca russo che appare nella festa alla Ca’ d’Oro, calice in mano e pelliccia sulle spalle, come uscito da un serial televisivo; ma chissà, forse pure gli oligarchi veneziani eran così, chi può dirlo? Al suo debutto sancarliano pure la Cieca di Kseniia Nikolaieva, buona caratterizzazione e bella voce, anch’essa ferma e stentorea.

Non avevo mai sentito, prima di stasera, Eve-Maud Hubeaux, chiamata per direttissima da Salisburgo per vestire anche qui i panni di Laura Adorno, al posto di Anita Rachvelishvili: sostanzialmente corretta l’interpretazione di questo mezzosoprano svizzero che proprio nella città di Mozart ha trovato la sua recente consacrazione, bella voce e credibile presenza scenica, non mi entusiasma tuttavia di certo L’amo come il fulgor del creato in duetto con Gioconda, uno dei must di questa partitura, il suo fulgor a confronto col turbine della rivale risulta sicuramente perdente.

Va beh, direte voi, dall’altra parte c’era Anna Netrebko: sì, e una Netrebko strepitosa, quella vista e ascoltata ieri sera, che sale e scende – e quanto e come e perché scende – in modo impressionante su una partitura che fa sua con la forza e la passione come solo possiedono le grandi interpreti di quest’arte: comprendi così, in modo pieno, quanto tutto questo sia stato costruito apposta per lei, per i suoi trent’anni di carriera – a questo evento è stata dedicata una recita straordinaria in anteprima di questa Gioconda – e per il suo vero esordio al Teatro San Carlo, felice di accogliere anche questo grande soprano che si aggiunge, ultima ma non ultima, alla lunga teoria di interpreti che ha visto nel corso della sua storia pluricentenaria. Possiede intensa voce, di certo, Anna Netrebko, e gran capacità di modularla a suo piacere e senza sforzo apparente, dai gravi vellutati incredibili agli acuti perfetti, dai pianissimi sussurrati alle esplosioni in fortissimo, multiforme, grande soprano che possiede pure – e come non potrebbe – un magnetico carisma che la fa brillare, in scena, sempre e comunque; da brivido il suo Suicidio, poco prima del finale ultimo e degli intensi, prolungati applausi.

Incrocio, andando via, nella coda che inevitabilmente si forma nel corridoio per l’uscita verso la serena notte napoletana, sguardi e voci di variabile umore, commenti, sussurri, brandelli di frasi, frammenti di pensieri, campioni di varia umanità che colgo al volo, provando a immergermi in un tenero altrove. E se c’è chi si dice entusiasta di questo o quello, c’è pure chi, immancabile, suona la vecchia solfa dei melomani, ricordando, nel rimpianto, Tebaldi e Simionato oppure Cappuccilli e Del Monaco, manca solo, come in quella vecchia canzone, che ricorda i fasti del (18)93, all’uscita la fioraia che offre un mazzolino di pensée. Che vuoi, sarà l’effetto Gioconda.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
Articolo precedenteA Lubiana il lusso dell’InterContinental Hotel, dove i servizi fanno la differenza
Articolo successivoB-Restaurant, a Lubiana un’esperienza gastronomica raffinata con vista
il-fulgore-e-il-turbine-gioconda-e-un-mazzolino-di-penseeAmilcare Ponchielli <br>La Gioconda <br>Direttore, Pinchas Steinberg <br>Regia, Romain Gilbert <br>Scene, Etienne Plus <br>Costumi, Christian Lacroix <br>Luci, Valerio Tiberi <br>Coreografie, Vincent Chaillet <br>La Gioconda, Anna Netrebko <br>Laura Adorno, Eve-Maud Hubeaux <br>Alvise Badoèro, Alexander Köpeczi <br>La Cieca, Kseniia Nikolaieva <br>Enzo Grimaldo, Jonas Kaufmann <br>Barnaba, Ludovic Tézier <br>Zuàne / Un cantore / Un pilota, Lorenzo Mazzucchelli <br>Isèpo, Roberto Covatta <br>Un barnabotto, Giuseppe Todisco <br>Orchestra, Coro e Balletto del Teatro di San Carlo <br>con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro di San Carlo <br>Maestro del Coro, Fabrizio Cassi <br>Direttore del Balletto, Clotilde Vayer <br>Direttore del Coro di Voci Bianche, Stefania Rinaldi <br>Nuova Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con il Gran Teatre del Liceu di Barcellona <br>Opera in Italiano con sovratitoli in Italiano e in Inglese <br>Durata: 3 ore e 25 minuti circa, con intervallo <br>In scena dal 10 al 17 aprile 2024 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 10 aprile 2024