
Torna qui a Napoli, al mio bel San Carlo, Evgenij Onegin di Pyotr Ilyich Tchaikovsky ad inaugurare quella che una volta era la Stagione Estiva, e che adesso invece si pone, senza soluzione di continuità, nel corso della normale programmazione: il suo ritorno, dopo il fortunato allestimento del 2014 diretto da John Axelrod, non potrebbe godere di tempistica più perfetta. Il culmine della primavera e l’inizio dell’estate è infatti il periodo in cui è ambientato l’inizio dell’opera, tempo di mietitura e dell’amore e del desiderio; e poi, naturalmente, non sfugge a nessuno l’importanza di mettere in scena il capolavoro russo oggi, in una delle capitali della cultura cosiddetta “occidentale”: la guerra Ucraina ha inevitabilmente cambiato la nostra percezione e la nostra sensibilità, inutile negare il maggiore e diverso interesse che proviamo oggi per quest’opera, rispetto, per esempio, a otto anni fa. L’insondabile assurdo della guerra ha bussato ancora una volta alla coscienza di chi, come noi, credeva ormai di esserne immune; l’arte, come sempre, può insegnare a capire la vita, non sempre, tuttavia, a viverla.
Occorre considerare, poi, come il poema di Puškin – fondamento della cultura russa moderna – da cui Tchaikovsky, non senza dubbi iniziali, trasse l’opera, annoveri, nell’enorme ventaglio della complessità dei suoi temi anche l’incontro e lo scontro di atteggiamenti e visioni: se la disperata noia che affligge il protagonista può risultare in apparenza tanto simile ad un anaffettivo britannico spleen, è perché il nostro punto di vista è eminentemente, inevitabilmente “occidentale”; e poi perché alla cultura di Byron è orientato il personaggio, al dandismo che lo rende inevitabile bersaglio della condanna dell’autore. E, d’altra parte, Tat’jana legge romanzi francesi, scrive la famosa lettera in questa lingua, pensa in francese, crede di essere un personaggio, un’eroina di un romanzo d’amore. Ed è Lenskij, che ha studiato in Germania, così pieno della novità impetuosa che viene da quel Paese, lo Strurm und Drang, poeta egli stesso, così devoto alla libertà di quel pensiero e di quell’emozione, che gli sacrificherà, in piena avvertenza, la vita. Non si comprende Onegin senza partire di qui, da queste insistite differenze di visione e di riferimenti culturali da cui nasce il dramma, la discronia fatale che segnerà il destino dei protagonisti.
E questo è chiaro fin dalla scena della lettera, primum movens dell’opera, ciò che Tchaikovsky scrisse per prima cosa componendo Evgenij Onegin, forse, a dar retta a lui, obbedendo alla analogia biografica in cui si ritrovò per caso: dice la leggenda che lesse tutto il poema di Puškin in una notte; dice la cronaca che proprio in quei giorni Antonina Miliukova gli aveva scritto una lettera dichiarandogli il suo amore e l’incredibile coincidenza ebbe conseguenze notevoli sia sull’opera sia sulla vita stessa del compositore. Ora, è chiaro che la situazione è per noi ben lontana da ogni possibile immaginazione, nemmeno per scherzo o per follia riusciremmo a veder Verdi mettere in musica I promessi sposi: questione di monumenti imbalsamati e polverosi e simbolismi nazional-umanistici tali da soffocar la voglia di chiunque, figuriamoci di un talentuoso musico. L’aver vissuto, tuttavia, una situazione così simile a quella narrata da Puškin gli fece (ri)considerare tutto sotto diversa luce. Scattò qualcosa. Del resto l’Onegin, il romanzo in versi, intendo, di analogie, risonanze, rimandi ne offre tanti, curiosi o tragici, oltre alla lettera affidata all’onore che Tat’jana-Antonina scrive ad Evgenij-Pyotr.
E dunque, per comprendere Onegin, il poema e l’opera, perché non rimanga fondamentalmente del tutto estraneo al nostro mediterraneo sentire, occorre, allora, ancora una volta, partire da dove son partiti loro, seguire, cioè, idealmente, lo stesso percorso battuto, in virtù del loro personale sentire, da Puškin e poi da Tchaikovsky, da quella scena che dell’opera costituisce il gelido ma vitale cuore, la magica notte nella casa dei Larin, il sancta sanctorum dell’anima di Tat’jana, e di qui desiderare, come un grido inespresso, di poter intimare all’attimo, come Faust: fermati, sei bello!, e domare l’amore, frenare il tempo, afferrare la felicità. Si rincorrono per tutta la vita, i quattro giovani protagonisti, o meglio rincorrono l’amore e la felicità, che sarà causa del loro evolversi e divenire – ma anche della loro rovina e della morte. E così finisce, quest’Onegin reso stupido e insensibile dallo spleen che l’acceca e l’annienta, per diventare, ancor più nella lettura di Barrie Kosky, così apparentemente tradizionale, così esplosivamente innovativa, tanto tanto simile a un personaggio cechoviano, che di lontano, solo di lontano, riesce a rimirare la felicità, la felicità così vicina, la felicità che il cielo prende e porta via lasciando al cuore la tranquillità, anestetizzando per sempre il dolore, sigillandolo (soffocandolo) in eterno.
Immagina, allora, il regista tedesco, con la solerte compiacenza della scena ideata da Rebecca Ringst, viver la vicenda nella natura d’erba e annosi sempreverdi della campagna come potrebbe essere Mikhailovskoe o Trigorskoe, i luoghi dell’incanto di Puškin, giardino profumato di terra e lavoro, che diventa successivamente ampio spazio della festa che fa da testimone al frangersi dell’amicizia tra l’umbratile Onegin e il buon Lenskijj a causa della leggerezza della maggiore delle Larine, Ol’ga, così amata dal cuor di poeta di Lenskijj, e, ancora, diventar stralunato paesaggio fuori mano per il duello all’alba e la morte gelida e solitaria di Lenskijj, farsi, con piccoli tocchi di neoclassici pilastri, casa sfarzosa ed elegante del principe Gremin e della piccola Tat’jana, ormai sofisticata, irraggiungibile principessa Gremina. Soprattutto, vediamo quello spazio protetto dagli alti resinosi fusti – giardino segreto dell’anima, terra franca dove il tempo e lo spazio altro non rivelano esser che irriguardose e miserrime invenzioni degli uomini per ingannar la morte – farsi camera da letto di Tat’jana, dove la ragazzina si muove sulla scena e canta i turbamenti del suo primo scoprirsi innamorata, sotto una gelida oscurità che è ombra e buio e assenza, ma in cui le frasi, i pensieri, le emozioni che fanno unica una notte come quella s’accavallano, si rincorrono, s’accartocciano e infine trovano compiutezza e pace nella lettera che Tat’jana scrive a Colui – nemmeno riesce a dirne il nome, neanche più tardi, quando incaricherà la njanja di recapitarlo, alla fine, quel prezioso pegno – che primo ha svegliato in lei inconoscibili passioni.
E poi il regista, che lascia che l’incandescente e iridescente materia – musica canto drammaturgia danza scene costumi luci – mostri tutta intera l’indicibile poesia del sentire, e tutta insieme concorra all’emozione e al turbamento, si prende la briga, ogni tanto, d’indicarci qualcosa, di sottolineare un aspetto, un punto di vista, oppure di aprirci gli occhi su una realtà altra, consista in un paesaggio lunare, un coro di festanti e colorati contadini alla luce delle torce, un indicibile abisso dell’anima, una candelina rimasta accesa, chissà perché, su una stupida torta d’onomastico dell’ormai disillusa adolescente: attraverso la crescente emozione lo spettacolo va avanti tra balli, duelli, latenti matrimoni, cenni d’allegria, tristezze malinconiche: e quando alla fine di un lungo percorso il cuore di Onegin, ora sì, è pronto finalmente a comprendere il mistero dell’amore, arriva il sofferto ma fermo rifiuto di Tat’jana, ormai sposata ad altro.
Lo respinge, Tat’jana, pur amandolo. Anzi, proprio perché lo ama, perché questa è la sua verità. Questo è un punto cruciale, ottimamente colto dal regista: si è detto tanto sulle affinità tra Tat’jana e Anna Karenina – che certo esistono – fermandoci, da buoni occidentali, alle superficiali epidermiche somiglianze, sì da considerar Tat’jana un’Anna senza coraggio – o se preferite, incoscienza – della compiuta radicale libera scelta. Invece la sorellanza di Tat’jana e Anna risiede piuttosto nella totale dedizione alla verità: è, la loro, una verità vitale anche se contraddittoria, che nulla ha a che fare con la ragione dei benpensanti e con la fede dei santi e degli eroi e che porta con sé, invece e tuttavia, tutto l’insostenibile peso – con intero il senso ineluttabile della perdita – che questo comporta. Come la pioggia improvvisa dell’ultima scena, che cade dall’alto e impregna i vestiti dei personaggi, e che, nonostante il dolore, domani – oh sì, domani – tornerà ineluttabilmente, immancabilmente a cadere sulle piante, sulla terra, sul mondo intero. Il carattere profondamente russo dei personaggi e della vicenda è proprio qui, in questo modus pensandi che consacra Tat’jana vestale della verità: verità che la renderà libera, ma inevitabilmente sconfitta, come del resto tutti i personaggi di questa storia.
L’ultima scena scritta da Tchaikovsky non è però il sospeso finale: l’analisi dei documenti ci dice che nel confezionamento dell’opera arriva ultima la prima scena e sempre più mi vado convincendo che non sia per caso. È in quell’assolato pomeriggio di giugno, nel quieto giardino dei Larin, che va cercata la chiave di lettura di tutta la vicenda. Mentre fuori scena le due sorelle Ol’ga e Tat’jana canticchiano una canzone, due anziane donne – Larina, la padrona di casa, e la njanja Filippevna – ricordano il loro passato preparando confetture di frutta: e il motivo che cantano, nenia dolce e implacabile e dura come acciaio che s’intreccia col canto delle ragazze, dice ch’è così bello l’amore dei giovani – l’amore da giovani – e sognare è bello, e immaginare, e quel giovane ufficiale che… e che un dio benigno manda in terra l’abitudine per consolarci della mancata felicità. Qui, all’inizio, Puškin (con Tchaikovsky) pone il terribile cinico gelido senso: è l’abitudine, non l’amore che dà una parvenza di felicità, è l’abitudine, anzi, che smussa gli angoli, attenua il dolore delle ferite, permette di continuare, nonostante tutto, a vivere. Il significato della storia, semplice e complessa insieme, è qui, all’inizio: a (re)iniziare il ciclo e la vita, qualcosa che potremmo chiamare – termine desueto – morale.
Nella bella impresa di questa esemplare rappresentazione sono accanto al regista alcuni notevoli artisti: a iniziare dal direttore Fabio Luisi che dirige con raccolta autorevolezza l’appassionata partitura di Tchaikovsky, attraverso i vari momenti dell’opera, dal tragico all’estenuato lirismo, ai bozzetti ironici senza scadere mai nel macchiettistico o nel semplicistico, assecondato da un’Orchestra come al solito di grande professionalità e di potente respiro, assorta e precisa. Mai come in Onegin la musica di Tchaikovsky non canta il sentimento, ma la sua perdita, che diventa insanabile mancanza, inconsolabile nostalgia: riuscire a rendere al meglio tutto questo è l’ardua impresa dell’orchestra e del suo direttore, e credo che questa volta possiamo dire che ci son riusciti egregiamente. Il Coro, diretto da José Luis Basso, vince sempre una grande scommessa, quella di esserci, di cantare, di recitare con enorme naturalezza. E lo sai perché ormai non te ne accorgi più; se poi questo avviene anche favellando in lingua aliena, il merito senz’altro s’accresce.
È splendido l’Onegin del baritono polacco Artur Rucinski, brunito e squillante, anaffettivo e trattenuto, disperato e fiammeggiante. E tutto questo insieme, in uno al pressoché perfetto controllo del palcoscenico, vocalmente e drammaturgicamente: credibile e altezzosamente antipatico nel primo atto, uomo ormai distrutto quando affronta la scena finale, il suo canto ha allo stesso tempo il calore, l’eleganza e la raffinatezza che Tchaikovsky richiede al suo antieroe. Elena Stikhina canta la sua Tat’jana gloriosamente fin dall’inizio, raggiungendo il culmine nei panni della principessa innamorata, riuscendo a cogliere un tono acuto ma caldo e un’immersione totale nel personaggio: consapevole delle esigenze dinamiche della parte, si esprime con completa sicurezza, rendendo al meglio la sognante vulnerabilità della ragazza – insuperabili le sue doti attoriali nella scena della festa, in cui incarna perfettamente il ruolo dell’adolescente delusa – e l’intensa immaginazione nella scena della lettera, che possiede quel senso di risveglio all’amore così essenziale per risultare credibile.
Poi c’è Michael Fabiano, eccellente e premiato da molti applausi nei panni di Lensky: prova ne sia Kuda, Kuda, che non lascia dubbi sulle qualità del tenore statunitense. In realtà, il canto di tutti i membri del cast è ben al di sopra dell’adeguato: Nino Surguladze è una Ol’ga perfetta, vivace, un tocco sensuale, del tutto in sintonia con il testo e lo spartito, così come, ovviamente, lo è, nei ciarlieri panni della njanja Filipp’evna, il celebre mezzosoprano russo Larissa Diadkova, una dei principali artisti del Teatro Mariinsky. Monica Bacelli, che siamo abituati ad applaudire nei suoi preferiti ruoli mozartiani o rossiniani interpreta qui, con garbo, una simpatica Larina. Molti applausi anche ad Alexander Tsymbalyuk, un Principe Gremin di estrema gravità.
Tutto il cast, insomma, mostra di essere ben al di sopra dell’eccellenza, dato non facile da ritrovare in un’opera di Tchaikovsky, in cui l’eco del pensiero sovente si sorprende in contraddizione col verbo e con l’azione, il flusso di coscienza, la libertà dello spirito, come la fantasia, spesso precede e decide la storia che sarà, le dà un senso e un fine, ne costruisce irrimediabilmente l’anima, le dona, infine, una speranza. Perché la fantasia – oh, sì, perfino le infantili, innocenti erotiche fantasie di una ragazzina in una notte, ai primi tepori struggenti del giugno delle spighe e dell’incipiente pienezza, nel giardino incantato dell’anima – è sempre portatrice di profonda novità della storia, ne prepara il percorso, indica il segno e la direzione alla realtà che, poi, procederà spedita e implacabile. Di questo, la rappresentazione cui abbiamo assistito sa essere sicura e condivisa prova.