
Chissà che avremmo detto oggi del Trovatore – in scena in questi giorni al Teatro Petruzzelli qui a Bari – se Verdi avesse tradotto in pratica sul serio – e non per dire – quanto affermò in una famosa lettera scritta a don Salvatore Cammarano per vincere le ultime resistenze di quest’ultimo a trarre un decente libretto dalla materia turbinosa, magmatica e del tutto disordinata che costituiva il corpus di El toreador del fantasioso Gutiérrez: diceva infatti il Maestro, promettendo – magari ci credeva pure, quando lo scriveva, ma sappiamo quanto invece fosse puntigliosamente e giustamente geloso riguardo a questa sua prerogativa – di lasciare al librettista ampia libertà nella distribuzione dei pezzi, perché per quanto lo riguardava, se nelle opere non vi fossero né Cavatine, né Duetti, né Terzetti, né Cori, né Finali, etc,, etc., e che l’opera intera non fosse (sarei per dire) un solo pezzo, troverei più ragionevole e giusto. Dobbiamo dunque attribuire a Cammarano la stretta osservanza tradizionale dell’opera, così perfettamente incasellata (qualcuno oserebbe ingessata), la musica di Verdi così ricca, mutevole e varia in una altrettanto stretta e compressa gabbia che sembra togliere respiro, affannando noi tutti appresso ai protagonisti che stentano pur essi a districarsi nel mare magnum d’una vicenda che già di per sé s’aggroviglia quanto mai in barocche volute, in andate e ritorni spesso dall’inconsulto apparire, in un fitto intrecciarsi di racconti e cronache vissute solo attraverso la voce dei personaggi? Duelli e battaglie, ferimenti e guarigioni, roghi e tornei, assedi e sortite, nulla di ciò avviene in scena, tutto è racconto, affabulazione, allusione: teatro allo stato puro.
Ecco, credo che quest’ultima parola sia decisiva per una comprensione piena di quest’opera: la vicenda, il suo intricato evolversi, la musica, le voci dei protagonisti non sono, alla fin fine, che teatro la cui tecnica è spinta al massimo grado possibile per l’epoca e i tempi, teatro in cui la finzione non si spinge mai fino a diventare falsità – bieca contraffazione di quella realtà cui è riferita – e dove, in definitiva, la stessa realtà non trova rappresentazione nella perfetta riproduzione e imitazione della verità fattuale, ma di cui, tuttavia, se ne dà ragione a noi che stiamo lì in platea e che, a dispetto di qualsiasi storia e geografia ci dovessimo trovare a vivere – in qualunque epoca, cioè, ed in qualsiasi latitudine – quella realtà e verità – allusive e riferite – risultino d’un tratto vive e perfettamente adeguate alla nostra personale situazione, ineriscano alle nostre vite come una cronaca puntuale dei tempi nostri, escano, i protagonisti, dalla categoria delle polverose vicende del passato per accomodarsi tranquilli accanto a noi, a condividere, finalmente, consapevolmente, le nostre più intime scelte e prospettive.
Non è solo, allora, fascino formale e, se si vuole, un tantino démodé, quello che ci ispirano le belle scene dovute alla genialità d’uno scenografo che di quest’arte fu Maestro, ma, insieme, perfetta adesione a questa fondante idea di teatro, che è allusione e invenzione, gioco e mistero. Disegnò queste scene, Tito Varisco, nel 1981 per il Massimo barese, che ne affidò la realizzazione ai Laboratori Soriani Cardaropoli, di cui rimasero proprietà: dalla matita dell’Artista, scomparso nel 1998, giusto vent’anni fa, uscirono assorti paesaggi in pietra serena che cercano nella geometrica perfezione e politura degli angoli il senso del loro puro esistere, senza incrociare mai le aggrovigliate storie degli uomini, torri che s’innalzano come idoli inesausti in deserti quasi surreali, tacitamente esibendo la loro segreta appartenenza ad una qualche religione astrusa e aliena, montagne e picchi inviolati che si stagliano nel distaccato cielo azzurro, pieno di sussiegosa condiscendenza per gli uomini che laggiù agitano le convulse emozioni loro, cortili dalle levigate pietre color pastello che sembrano delimitare isolate guarnigioni che possiedono apparenza di faziende amerinde perse nell’abbraccio afoso e caldo di praterie vaste come mondi, saloni goticheggianti che da pinnacoli e costoloni rimandano a un’idea ed un concetto dell’età di mezzo turbinosa e silente insieme, inneggiante ad un dio tacito e nascosto, turbini ombrosi d’intricati vegetali che disegnano inospiti sentieri in cui si perde il senso della misura e la rettitudine della mente, ché a guardarli un po’ di più, presto ti rapiscono e ti portan via con sé, come le illustrazioni dell’Orlando furioso di Dorè, apparentate al disegno di queste scene dal fantasioso smarrir del senno.
E così pure i costumi, disegnati da Pasquale Grossi, obbediscono a questa logica che si fa invenzione onirica e teatrale, nei rasi setosi che vestono Leonora, Ines e le amiche loro, dagli amaranti ai celestrini ai violacei riflessi della luce catturata e rifratta; in questo mondo di perenne guerra il Conte, Ferrando ed i soldati indossano rigorose uniformi che s’arricchiscono d’ampi tabarri negli ufficiali, avvicinandosi un po’ alle probabili divise d’un’altra opera visionaria, quel Deserto dei Tartari di Buzzati che pure immaginò guerre vive più che altro solo in impaurite stolide fantasie. Vestono, invece, Manrico ed Azucena e le genti loro costumi ispirati al medio oriente, veli, stivali e scimitarre, quasi a confermare in quelle lande lontane l’origine di pestilenze ed invasioni incarnate di volta in volta in Unni, Tartari, Afgani e Turchi, l’eterno straniero eterna fonte di paure e angosce, che tuttavia provoca, nello spettatore moderno, un subitaneo retropensiero di popoli oppressi dal perenne imperialismo occidentale, destando spaesamento e straniamento, giusta strada per la conquista d’una nuova consapevolezza.
La regia di Joseph Franconi Lee ha mano leggera che sapientemente sa dare oggettivo peso e stemperare insieme le diverse esigenze dello spettacolo e del dramma, delle voci e della platea, confezionando alla fine un allestimento dalle giuste e felici proporzioni e misure: comincia, per esempio, lo spettacolo, con un discreto e parziale aprirsi del sipario, quasi un primissimo piano cinematografico sul Ferrando “inquadrato” di spalle, mentre l’Orchestra del Teatro Petruzzelli, grandi professionalità dirette questa volta da Renato Palumbo, esegue, come di prammatica, i tre rulli di tamburo con cui l’opera s’apre.
Tuttavia sceglie, il Maestro Palumbo, d’eseguire questo inizio non con l’usuale perentorietà che pure t’aspetti da quest’opera che è pur sempre ferrigna di guerra e fuoco, ma sommessamente, temperando l’irruenza eroica della partitura con la grazia e la pregnanza, che in qualche modo vanno a costituire la cifra interpretativa di questa ulteriore riflessione del Maestro Palumbo sull’arte di Giuseppe Verdi, che da anni porta avanti con rigore e sapienza; così, pure il Coro, validamente diretto da Fabrizio Cassi, sa adeguarsi a questa modalità, validandola sia nei pianissimo sia nei fortissimo che costituiscono il carattere precipuo di quest’opera. E anche Giuseppe Gipali, che riveste il ruolo eponimo, presta la sua vocalità immediata, interessante e dotata di qualche vaga inflessione baritonale non solo ad affrontare – come ovvio e anche un po’ tedioso – la fatidica e famigerata “pira”, ma pure, e soprattutto, a piegar il timbro eroico di Manrico alla tenerezza dell’incontro con la madre e con Leonora, cui presta voce e corpo Maria Teresa Leva, soprano giovane e dalla voce bella e rotonda, omogenea e duttile, soprattutto a piena voce e negli acuti e nei gravi, pur con qualche incertezza nei legati e nei piani e pianissimi: molto applaudita alla fine, riscuote molto successo pure la sua esecuzione di D’amor sull’ali rosee.
Alberto Gazale è baritono di grande esperienza: affronta il personaggio del Conte di Luna – probabilmente il ruolo meno credibile, tutto chiuso com’è nel suo personale delirio erotico – con grande intelligenza e credibilità, lontano dagli stereotipi del cattivo senza se e ma, grazie al bel fraseggio e alla presenza scenica perfetta, mentre Carmen Topciu disegna una Azucena di pregevole fattura – di cui ben s’accorge il pubblico – dalla vocalità fluida, corposa e ben calibrata, pur con qualche sporadica debolezza sulla fascia grave. Molti gli applausi, alla fine, per tutto il cast, da parte di un teatro pieno in ogni ordine di posti.