Colazione con… Riccardo Frizza

Quando la musica è un "sentire dentro"!

Riccardo Frizza Credit photo www.riccardofrizza.com

Incontro il maestro Riccardo Frizza in un periodo di pausa tra il successo delle recite estive di Aida a Macerata e le prove del Falstaff per il festival verdiano di Parma. Molto generosamente quindi si è messo a disposizione in un periodo di riposo per parlare del proprio amore per il melodramma italiano e per la direzione d’orchestra. Il maestro non ha certo bisogno di presentazioni e la sua già lunga carriera fa di lui uno dei più interessanti direttori d’orchestra del panorama internazionale. Gli occhi piccoli e vispi fanno trapelare le passioni di una personalità forte, intelligente e curiosa; i modi affabili e la semplice simpatia mettono subito a proprio agio. Ci siamo fermati per una lunga conversazione, abbiamo parlato di Belcanto, regia d’Opera, critica, voce e canto e di filologia. Lo attendono nella prossima stagione oltre al Falstaff a Parma altre importanti appuntamenti in tutto il mondo; in Italia lo attendono Elisir d’amore e Norma al Teatro la Fenice di Venezia ed un attesissimo Il pirata di Bellini al Teatro Alla Scala, sul palco Sonya Yoncheva protagonista.

D. Buongiorno Maestro Frizza, immagino che sia rimasto soddisfatto dei tuoi ultimi impegni con Macerata festival …
R. Moltissimo, è un ambiente che conosco bene: conosco la città, conosco lo Sferisterio e quest’anno ho partecipato all’allestimento di Aida per la regia di Micheli. Non si è trattato di un nuovo allestimento ma di una ripresa che tenevo fare perché mi piace molto lavorare con Francesco Micheli. Questo regista è molto intelligente e brillante, e nel suo lavoro niente è lasciato al caso. Dal mio punto di vista lo considero un “visionario” ma non va mai contro la partitura e contro la drammaturgia; avevo già provato una bella esperienza lavorando con lui alla Lucia di Venezia ed ho avuto piacere di ritrovalo anche per questo spettacolo a Macerata. Abbiamo lavorato a questa Aida insieme e con qualche cambiamento rispetto al 2014, migliorandola.

D. Ho dato una scorsa ai sui prossimi appuntamenti, ci sono: Semiramide, Elisir, Pirata, Norma… possiamo parlare di direttore “Belcantista”?
R. No, non direi: ho diretto una ventina di titoli di Verdi, quindi forse dovrei essere definito un direttore “verdiano”… ma io non amo le “categorie”. Ovviamente il Belcanto è un repertorio che mi interessa e che frequento, e credo che sia per vari motivi: da una parte, sicuramente, l’amore che ho per il canto e di cui il Belcanto è l’espressione massima portando all’estremo le capacità vocali dell’individuo; dall’altro lato mi piace molto sperimentare così amo molto questi autori italiani Rossini, Donizetti, Bellini compreso Verdi, il primo Verdi ovviamente: sono tutti compositori che hanno sperimentato molto sviluppando il melodramma. Mi piace percorrere tutto l’avvicendarsi di questi autori e quindi di tutto il melodramma dell’Ottocento fino ad arrivare a Puccini, che ho diretto e che amo moltissimo. Quindi più che direttore “Belcantista” forse sono un direttore del repertorio “Italiano”. Adoro Donizetti e amo molto Bellini pur con le loro difficoltà. Al momento non ho mai diretto del repertorio tedesco, a parte un Flauto magico ed in futuro vorrei sperimentare altre cose come il repertorio francese oppure Wagner. Penso che sia un limite per un direttore la “specializzazione”, io mi ritengo un musicista molto interessato e curioso, faccio quello che in questo momento mi sento di fare. Uno dei miei progetti è completare il catalogo verdiano, e ci sono vicino mi mancano solo alcuni titoli che si fanno meno spesso come ad esempio Aroldo, Battaglia, Alzira, Corsaro: sicuramente titoli non facili ma che spero davvero di fare prossimamente.

D. … a proposito di Verdi, domani iniziano le prove di Falstaff per il festival di Parma …
R. Sì esatto, devi essere sempre presente. E’ importante che durante la messa in opera della regia non sorgano “difetti” musicali che si portano fino alle prove in orchestra, a quel punto sono più difficili da togliere. Il cantante memorizza il canto e il ritmo anche sul movimento scenico, diventa naturale, nel muoversi canta. Il cantante non deve pensare a muoversi e a cantare: deve diventare qualcosa di fluido ed ecco che se non sei presente, come direttore, a fare la correzione nel momento in cui sorge l’errore, è facile poi che questo si trascini fino alla fine: ed è un problema. Generalmente quindi preferisco essere presente dalla prima prova, specie se devo fare opere tecnicamente complesse. Penso ad esempio a opere come Rake’s progress… o Mirandolina di Martinu, posso assicurare che è stata montata battuta per battuta perché è un testo veramente difficile. In queste opere il cantante-attore deve anche muoversi molto e quindi perdere il senso del ritmo è molto facile. Falstaff è una di queste opere che, se ben studiata e provata, diventa fresca e leggera e non da l’impressione della difficoltà intrinseca. Quando si sente che un’opera è difficile da fare, le cose non vanno bene. Al contrario, se tutto scorre sembra una cosa molto fluida e leggera, ma in realtà per arrivare lì c’è un grande lavoro dietro… quindi questo è quello che ci aspetta nei prossimi giorni…

D. … la cifra dei grandi artisti, far sembrare semplice qualcosa di estremamente complesso…
R. …esattamente!

D. Abbiamo parlato di Falstaff, quindi parliamo di Muti: in un’intervista ad AMERICA24 ha detto che si riferisce molto al lavoro del Maestro partendo dal testo arrivando poi alla musica…
R. Sì, ma forse non è proprio questo il caso in Falstaff. Lo scopo della domanda era conoscere quali fossero i miei “riferimenti musicali” e, anche se non ho modelli prestabiliti, ci sono alcuni direttori d’orchestra ai quali riconosco un grande merito. Ad esempio, quello di Muti è stato prendere Verdi, quello degli “anni di galera”, che all’epoca si faceva tutto tagliato e seguendo la tradizione, e riproporlo per quello che è. Muti ha dato enfasi a quello che Verdi stesso voleva, e cioè dare senso musicale alle parole. Le note non sono scritte a caso così come le melodie o gli accompagnamenti orchestrali (sebbene primordiali – diciamo – ancora Donizettiani se si vuole vederli da un certo punto di vista). Tutto è scritto per esaltare il testo. Penso ad esempio al Nabucco di Muti alla scala: è un Nabucco che ha fatto storia, il suo Attila ha fatto storia… la Traviata… hanno fatto storia; questo perché ne ha reso una lettura così asciutta: riproposta senza i tagli, senza le consuetudini, senza le puntature; ha dato alla partitura un senso che è completamente diverso da quello che si faceva negli anni Cinquanta. Se tu senti le registrazioni di quegli anni, quanto alla resa della scrittura orchestrale (non vocale)dell’architettura dell’opera, e le confronti con quelle di Muti, allora capisci che lui ha restituito quelle partiture in maniera completamente diversa da come si conoscevano: questo è il suo grande merito secondo me. Ogni volta che si affronta un testo musicale, è questo che deve essere fatto: soprattutto un direttore italiano e che affronta il repertorio italiano oggi. Io ho tentato di fare la stessa cosa con Lucia a Venezia, per quello che ho potuto. Dicono che i tempi non siano ancora maturi per proporla come Donizetti l’ha scritta, ad esempio tagliando tutta la parte col flauto, che non è di Donizetti.. A Venezia l’abbiamo eseguita con la cadenza ma se noi la togliessimo della scena della pazzia l’intera cadenza del flauto e facessimo quella originale, il soprano della Lucia sarebbe un soprano molto più drammatico di quello che siamo abituati a sentire (penso al duetto con Enrico, alla scena del confronto, alla pazzia stessa…). Infatti, la nota più acuta nel ruolo del soprano in partitura è un si bemolle… c’è solo la puntatura ad un mi bemolle in un duetto. A questo punto ci vorrebbe un soprano con caratteristiche vocali ben diverse da quello che siamo abituati a sentire. Adesso noi, come da tradizione, manteniamo la parte di coloratura della cadenza del flauto e siamo “costretti” a scritturare un soprano più leggero: in grado di affrontare quel brano. Quindi come prossimo passo, mi piacerebbe proporre la Lucia integralmente e farla come Donizetti l’ha pensata.

D. …molto interessante e chi vedrebbe oggi come possibile interprete di una Lucia “ritrovata”?
R. Non so, ci sono oggi i vari soprani drammatici, che noi consideriamo tali perché li sentiamo nelle varie Abigaille o nelle varie Gioconde, e che potrebbero affrontare la Lucia in una determinata maniera. Ci vuole un soprano che abbia la capacità di modulare la voce dal pianissimo al fortissimo, cosa non semplice per voci così “grosse”. Più che altro oggi non hanno l’abitudine a studiare l’agilità. Un soprano che oggi canta Turandot, all’epoca di Donizetti avrebbe dovuto affrontare il repertorio drammatico d’agilità, e dal momento che studiavano la coloratura si da ragazzine, pur avendo una voce “grossa” sarebbe stata in grado di padroneggiare anche i passi virtuosistici. E’ diversa l’attitudine al repertorio ed allo studio rispetto un tempo. Oggi, una voce “drammatica”, l’agilità neanche la prepara e neanche la studia dal momento che magari non gli servirà mai nella sua carriera. Si potrebbero cercare delle voci adatte, non è sicuramente una operazione semplice, ma a livello scientifico bisognerebbe provare a proporre una Lucia così e vedere cosa succede… magari anche con un’orchestra di strumenti originali per capire cosa era la Lucia dell’epoca di Donizetti.

D. Quindi, le piacerebbe proporre la pratica filologia anche in altri testi, o vede la filologia come qualcosa che si vuole a tutti i costi proporre…
R. La pratica filologica che tende al manierismo non mi interessa. La pratica filologica che prova a sperimentare determinate situazioni, sì. Per esempio, si potrebbero utilizzare strumenti d’epoca. Non ti parlo di strumenti barocchi, ma di strumenti che sono della metà dell’Ottocento, quindi molto vicini agli strumenti moderni, magari accordati a 438 anziché a 442 o 444 come oggi capita. Così facendo la voce tenderebbe ad essere meno forzata e tesa. Sarei curioso di vederne i risultati e di provarlo, soprattutto in Donizetti, anche in Verdi… Credo che Donizetti sia l’autore che ancora oggi debba essere, dal punto di vista scientifico, maggiormente riscoperto ed approfondito. Penso al lavoro che è stato fatto in maniera grandiosa da tutti gli artefici del ROF negli ultimi trent’anni (Zedda, Abbado, ecc…): tutti artisti di altissimo livello e musicologi che hanno dedicato la loro vita a Rossini: sarebbe bello fare lo stesso lavoro anche su Donizetti, secondo me ne sentiremmo delle belle. Ovviamente, non tutte le opere di Donizetti sono dei capolavori, (così come non lo sono quelle di Verdi o di Mozart ovviamente – non si può dire ma lo diciamo lo stesso -) però ripreso, considerato e ristudiato potremo avere delle belle sorprese su questo autore. Questo è un lavoro che mi interesserebbe molto far. Il festival Donizetti di Bergamo, grazie alla presenza sempre di Micheli, sta cominciando cercando di riproporre titoli, anche sconosciuti, che poi sono dei veri capolavori… in questa direzione il festival Donizettiano potrebbe diventare molto importante. Naturalmente il ROF ci ha messo almeno trent’anni per proporre lo studio dell’opera Rossiniana nel suo complesso…

D. E’ da questo discorso su Donizetti, chiamiamolo “filologico”, che deriva la scelta di scritturare per Norma a Venezia due Soprani: Mariella Devia e Carmela Remigio?
R No, sono state scritturate perché l’avevano già fatta e data la positiva esperienza fatta insieme, affiancare la Remigio alla Devia, è sembrata una buona soluzione. Sinceramente non mi preoccupo molto della scrittura sopranile o mezzo-sopranile del ruolo di Adalgisa, questa è più secondo me una questione più moderna, un problema che si è posto oggi più che in passato. Sul palcoscenico abbiamo due artiste di altissimo livello: di Devia non bisogna nemmeno parlarne e per quanto riguarda Carmela Remigio, la trovo un’artista di una profondità interpretativa assoluta. La vocalità deve essere funzionale al ruolo e una voce pesante o più scura non riesce a rendere l’idea a livello drammaturgico: il ruolo di Adalgisa è quello di un’ancella giovane e alla fine è il teatro che conta. Non possiamo sempre limitare la cosa all’aspetto vocale a tutti i costi. Tutto concorre alla drammaturgia dell’opera.

D. Cosa fa per rendere “vivo” questo tipo di teatro? Il melodramma italiano a livello drammaturgico presenta le sue pecche …
R. Il teatro del Romanticismo italiano, che è poi quello del melodramma italiano, è un teatro in cui non soltanto si sentono belle melodie fini a se stesse, ma è un teatro in cui queste melodie sono funzionali, come dicevo prima, a sottolineare tutti gli aspetti psicologici e relazionali dei personaggi. Alcune storie sono poco credibili agli occhi dell’ascoltatore moderno, per esempio: il delitto d’onore. Quando abbiamo fatto l’Oberto alla Scala nel 2013 il regista, Martone, ha pensato di trasporre l’azione nei tempi moderni. Si è chiesto “Come possiamo rendere credibile il delitto d’onore ai giorni nostri?”, oggi è ridicolo perché non esiste nemmeno più: non è concepibile nella nostra società in generale. “Ma dove è concepibile ancora?” in quei posti dove ancora oggi è presente questo atteggiamento sociale: la Sicilia, il Sud. Così Martone ha trasposto l’azione ed è diventato tutto molto più credibile. Quando ho diretto Norma a Parigi, con Maria Agresta che debuttava nel ruolo e con Sonia Ganassi che cantava Adalgisa, abbiamo fatto un lavoro di scavo nella parola, nel testo, molto profondo. Il modo in cui tu dici la parola o il silenzio dopo la parola che tu hai appena finito di pronunciare crea teatro. Tante volte i silenzi stessi creano quel clima e quell’ ambiente necessari a dare il senso della profondità teatrale che l’autore ci vuole dare. Magari non è la storia in sé, ma è un momento specifico durante il dramma a darci molto. Per esempio Trovatore, sarebbe una storia ridicola, però ci sono alcuni aspetti dell’opera che presi singolarmente (il rapporto madre figlio, la scoperta di avere un fratello, ecc. …) che Verdi esplora in maniera incredibile a livello musicale. Vero, non tutti i libretti sono grandi testi, ma piacevano al pubblico di allora Oggi per non farli diventare pezzi da museo fini a se stessi, dobbiamo cercare di trovarne il senso e di giustificare quel teatro nel nostro tempo.

D. E per una regia d’opera adesso, quand’è che le piace uno spettacolo che sta dirigendo?
R. Ci sono spettacoli che mi piacciono di più e spettacoli che mi piacciono di meno. Mi piace molto lavorare con artisti come Micheli, Martone, Mc Vicar e altri, perché non stravolgono nulla di quello che è la musica; non vanno contro la volontà dell’autore. Piuttosto, hanno la capacità di guardarli da un altro punto di vista, senza bisogno di muovere dei numeri musicali uno prima e l’altro dopo per rendere la storia più interessante. Sono artisti che si fidano ciecamente del compositore. Ci sono spettacoli tradizionali molto brutti perché le regie sono orrende e spettacoli moderni molto brutti e viceversa: spettacoli moderni molto belli perché sono ben fatti, molto curati in cui si capisce benissimo quello che succede, si capisce la volontà di un regista di sottolineare determinati aspetti. Questi sono gli spettacoli che mi interessano, quelli che quando sei sul podio hanno il potere di ispirarti a livello musicale. Quando lavori ad una produzione, soprattutto una nuova, in cui cerchi assieme al regista di trovare determinate situazioni, tutta la musica che hai sotto la giustifichi con tutto ciò che succede sul palcoscenico. Così, quando lo spettatore va a teatro e quello che sente e quello che vede vanno sullo stesso binario, capisce che lo spettacolo ha un senso ha una linea, una sua credibilità e questo può decreta il successo dello spettacolo.

D. Reputa il suo come un lavoro creativo?
R. No.. io credo che il vero creativo sia il compositore. Il direttore d’orchestra ha più il ruolo di un notaio: colui che prende qualcosa che è morta sulla carta e che lo fa diventare vivo nel momento in cui lo sta eseguendo, cercando di mettere in vita qualcosa che è morto. Ma metterlo in vita secondo la volontà di di colui che l’ha scritto perché altrimenti tutto sarebbe lecito… Se io fossi un creativo, potrei fare dello spartito che sto seguendo qualsiasi cosa; ma dal momento che lo spartito non è il mio , come interprete io devo “interpretare” la volontà del compositore: quello che ha voluto dirci. Quindi… creativo? No, non credo…

D. Trova utile, per il suo lavoro, nutrire la sua mente? Al di là dello studio della partitura musicale, legge… si documenti su altre fonti?
R. Si, io sono appassionato di tantissime cose: leggo tutto, mi piace tutto, sono molto interessato a qualsiasi cosa. Non posso dire se serva al mio lavoro o meno. Ma dentro di te c’è qualcosa che ti fa pensare o cambiare idea rispetto al passato: alcune situazioni affrontate in un determinato modo, oggi, pensi di farle in un altro. L’età poi conta moltissimo, anche il momento della carriera. Quando dirigi a trent’anni da te ci si aspetta qualcosa che non è la stessa cosa che ci si aspetta da te quando hai quarantacinque, cinquant’anni. Ovviamente nella tua mente scattano alcuni meccanismi completamente diversi. Quando hai bisogno di metterti più in mostra ecco che sei più “creativo” (riferendomi alla domanda di prima), quando arrivi a quarantacinque anni forse cerchi di approfondire la stessa cosa da altre angolazioni. Col tempo quindi, agli occhi di alcuni sei meno brillante e secondo altri stai approfondendo il discorso: dipende sempre da chi guarda, ma io non mi preoccupo, cerco di fare bene il mio lavoro con idee ben chiare nella mia mente. Se queste idee non arrivano al pubblico, ovviamente penso al “perché” io non sia stato in grado di comunicarle; viceversa, quando vedo che qualcuno le capisce e altri no ecco, per me è sufficiente… qualcosa è passato.

D. Come si approccia ad un titolo?
R. Se è un titolo nuovo, io mi approccio dal libretto: dalla parola! Sì, perché considero che la parola ispiri la musica. Il compositore fa la stessa cose che faccio io come interprete: legge il libretto e questo gli ispira una determinata musica… e può essere solo quella. Quindi parto sempre dal libretto. Poi, molto interessante è ovviamente approfondirne il contesto storico, la genesi, come è stata scritta l’opera specie se sono compositori del Belcanto o Verdi. E’ importante capire il momento storico e perché è stata fatta in una maniera piuttosto che un’altra: tutto questo ti dà delle chiavi di lettura interessanti. Questo studio è come avere delle “spie” che ti indicano dove andare a scavare meglio. Non si tratta solo di note e basta: ma perché quel tipo di nota e non un’altra. Tutto questo è un lavoro che richiede molto tempo: una volta aggiungevo molti titoli al repertorio adesso tendo a farlo con più cautela. Faccio un esempio: se sono invitato a fare un’opera come IL PIRATA alla Scala ci si aspetta un certo tipo di approfondimento e questo porta a prepararti ed a studiare tanto per un’opera come questa. E’ molto complicata, difficilissima da capire, perché è un Bellini giovanissimo: bisogna conoscere da dove viene e dove vuole andare. Non è così ovvio capirlo subito perché anche lui era un compositore che sperimentava e forse nemmeno lui sapeva dove volesse arrivare. Non ti puoi aspettare che si interpretino I Puritani come Il pirata: sarebbe un errore di partenza; ma se pensi alla Semiramide e poi al Pirata, allora ci sono dei nessi molto interessanti per capire da dove Bellini è partito.

D. E’ un bel titolo questo de Il pirata alla Scala…
R. E’ un titolo molto bello, è un titolo molto stimolante ed è un titolo molto difficile. Proveremo a fare una proposta che tenga in considerazione molte cose ma soprattutto la volontà del compositore che per me è la cosa più importante e poi il resto va di conseguenza.

D. A lei piace il canto, ma non hai studiato canto…
R. No perché il mio approccio al canto in realtà è molto tardo, mi sono avvicinato all’opera a circa trent’anni. La mia formazione direttoriale inizialmente era sinfonica, poi studiando all’accademia Chigiana con Gelmetti ho lavorato spesso su pezzi operistici. Quando per la prima volta ho diretto il primo atto di Boheme, mi son reso conto in quel momento che mi si stava aprendo un mondo. Ho pensato: “Questo mi piace, mi interessa!”. Mi piacciono le voci e così mi sono appassionato a questo repertorio. Poi, ho conosciuto mia moglie che è una cantante e vivere in casa con un’artista che studia quotidianamente, ascolti la sua voce, come affronta alcuni aspetti tecnici, come risolve alcuni passaggi: questo mi ha fatto appassionare molto al canto.

D. Immagino che questo l’abbia aiutata molto nel suo lavoro, in modo particolare nel rapporto direttore-cantante …
R. Il rapporto con mia moglie per il mio lavoro è fondamentale, e se sono cresciuto artisticamente nell’opera è grazie anche al fatto di avere una cantante in casa. Perché ti fa capire cose che altrimenti non dico che si ignorino ma che si tendano a sottovalutare. Per me è molto facile capire perché i cantanti fanno determinate cose in palcoscenico, perché magari hanno necessità fisiche particolari per cantare. Per esempio, quando l’accompagno per lo studio di una parte, ascolto il modo di fraseggiare, di respirare e a livello musicale maturi. Il canto è lo strumento naturale per eccellenza. Non a caso in partitura a volte è segnato “cantabile”: perché in quel momento la musica si aspira al mondo del canto: cioè a portare i suoni in una certa maniera, cioè a collegarli tra loro dando spazio a certi suoni piuttosto che ad altri come quando si canta.

D. C’è stato un incontro in cui si è sentito di aver dato di più ad un cantante o viceversa?
R. Non so se ho dato qualcosa a qualche cantante, spero e me lo auguro… So che ci sono molti i cantanti che hanno piacere di lavorare con me perché lavorando parliamo la stessa lingua. Che io riesca a capirne di canto mi sembra brutto da dire… diciamo piuttosto che vado in sintonia con il cantante perché magari so come respira, dove respira o dove ha bisogno di respirare. A volte mi rendo conto anche quando un cantante prende un fiato innecessario e gli posso dire che lì può fare senza fiato, oppure so dove deve prenderlo perché lì è necessario. Questo è il lavoro del direttore d’opera, quello che tutti noi dovremmo cercare di fare. Dovrebbero essere gli altri a dire se hanno imparato qualcosa da me…

D. Leggevo che ha avuto un incontro con l’orchestra folgorante, il pianoforte non lo sentiva il tuo strumento?
R. In realtà… quando studiavo pianoforte all’inizio, pensavo di fare il pianista ero abbastanza portato per lo strumento e suonavo bene. Forse come tanti ragazzi a quell’età, a circa tredici anni, non hai le idee chiare su cosa vorrai fare nella tua vita: quindi studiavo pianoforte un po’ perché mi piaceva suonare, un po’ perché mi mandavano a studiare… e non avevo mai sentito un’orchestra dal vivo e forse nemmeno in un video. Da ragazzo non ero fruitore di musica, non avevo una discoteca a disposizione a parte quei quattro dischi di pianoforte che avevo: Chopin… Arrau… List… Horowiz con Giulini alla Scala… Poi in un viaggio con la mia famiglia ho sentito un concerto di musica dal vivo ed erano i Wiener Philarmoniker. Mentre sentivo l’orchestra suonare pensavo: “Questo è il mio lavoro, io voglio fare questo!” quasi una vocazione… A me suonare insieme agli altri mi è sempre piaciuto infatti, quando studiavo al conservatorio frequentavo sempre tutte le varie classi di musica da camera, musica d’insieme, accompagnavo tutti perché mi piaceva fare musica con altri. Il pianoforte solista non mi interessava più a quel punto: mi interessava far musica da camera e poi da lì il passo alla direzione d’orchestra è stato breve.

D. Com’è suonare l’orchestra?
R. E’ bello, non per la questione di sentire il potere in mano, no… E’ bello suonare l’orchestra perché il suo stesso suono ti affascina. Il suono dell’orchestra cambia sempre. Questo avviene in funzione di quelli che stanno suonando in quel momento ma anche perché il coinvolgimento che gli orchestrali hanno dipende molto anche dal modo che tu hai di renderli partecipi di quello che tu stai facendo in quel momento: e questa è la connessione tra orchestra e direttore. Le orchestre professionali tendono sempre a suonare quello che un direttore chiede, ovviamente, ma se non sono d’accordo con le tue scelte si sente. Se, viceversa, la stessa cosa la fanno perché ci credono e tu sei riuscito a trasmettere un’idea che ha un valore musicale, ne sono convinti e lo suonano in maniera diversa: è questo è il piacere dell’orchestra. Quando quello che faresti sul tuo pianoforte da solo riesci a farlo attraverso altre persone e questo è il fascino di suonare l’orchestra.

D. Parlando della sua formazione, e intendo da piccolo, com’è stato l’incontro con i suoi primi insegnanti di pianoforte? E’ stato determinante il loro contributo nel farle prendere questa strada oppure è stata più una cosa sua?
R. No, era più una cosa mia… io ho voluto andare a scuola di pianoforte. Tra l’altro avevo una maestra che era già molto anziana e molto severa, un’insegnante di vecchio stampo: una di quelle che “sbacchettava” le dita… diciamo che è stata una cosa che io ho voluto. Anzi, credo che anche altri ragazzi che studiavano con me, grazie a questi metodi “d’altri tempi” hanno abbandonato lo strumento per questo metodo. Al contrario più avanti ho conosciuto un maestro che purtroppo non c’è più ora, si chiamava Teodoro Simoni, un bravo insegnante di pianoforte del conservatorio di Brescia. E’ stato lui il mio primo maestro per me importante, il primo che mi abbia fatto sentire che il muovere le dita non era fine a se stesso per fare le note. E’stato il primo che ha cominciato a parlarmi di musica. Quando sei bambino impari a suonare, fai gli esercizi, suoni le note e ti accontenti di non sbagliare, ma Simoni è stato il primo che mi ha fatto capire come la musica fosse un’altra dimensione. Dopo questo primo importante incontro ho studiato col Maestro Sergio Marengoni, un grandissimo pianista e didatta che mi ha dato moltissimo. A lui devo l’insegnamento di altre cose: la pulizia e la chiarezza del fraseggio, il rispetto delle indicazioni cioè tutte quelle cose sulle quali, quando sei giovane, passi un po sopra, invece Marengoni da questo punto di vista era molto puntuale. Son sincero io non gli ho mai dato tutto quello che lui mi chiedeva perché a quell’epoca , a quasi diciotto anni, avevo già in mente solo l’orchestra e quindi non ero più così coinvolto a livello pianistico . Già studiavo composizione, orchestravo i miei primi pezzi, già cercavo la mia strada.

D. Per quanto riguarda la composizione, non ci ha lasciato ancora niente per ora…
R. Io ho composto pochissimo, per me. Lo studio di composizione era finalizzato alla direzione d’orchestra. Quando ho iniziato a studiare all’accademia pescarese, Gilberto Serembe, il mio maestro mi ha detto che dovevo studiare assolutamente composizione se volevo fare direzione d’orchestra, ed io ho seguito il suo consiglio e ho iniziato gli studi di composizione. E questo è diventato ancora più serio quando ho conosciuto sua moglie ed è stata lei la mia vera insegnante di composizione, Elisabetta Brusa: una grandissima compositrice innanzitutto anche se poco nota (ci sono delle registrazioni della NAXOS di pezzi incredibili) ed una grandissima didatta allieva di Bruno Bettinelli. Quindi studiare con lei era come attingere dalla vecchia scuola di composizione italiana. Ho imparato contrappunto e fuga da lei in modo eccellente, avevo tutto chiaro in testa grazie a lei e questo mi è servito tantissimo soprattutto per lo studio. Quando apro la partitura ho veramente un occhio diverso rispetto allo strumentista, avendo alle spalle dieci anni di composizione lo guardo da un altro punto di vista… lo esploro da dentro, ecco… anziché guardare la partitura da fuori la esplori da dentro.

D. C’è una “voce” che preferisce in orchestra o in palcoscenico? O la coinvolge sempre l’ammasso, l’insieme del tutto…
R. Non c’è uno strumento che “preferisco”… certo mi piace sentir suonare la fila dei violoncelli, magari quando suonano una melodia tardo romantica, ma non posso parlare di “strumento preferito”. La voce umana che preferisco sentire è quella di baritono però la voce che mi piacerebbe “essere” è la voce di tenore naturalmente (ride) perché c’è questo lato eroico dentro di me che quando sento il tenore… mi esalto!… però quando sento un baritono cantare mi appassiona. Ci sono e ci sono stati grandi tenori: come non si fa a non amare artisti come Kraus, Pavarotti, Domingo…Corelli (ma non vorrei dimenticare nessuno ovviamente…) ma quando sento il baritono è per me la voce per eccellenza. Soprattutto il baritono verdiano è magnifico.

D. Il suo rapporto con i “social”, lei, sua moglie e molti altri artisti gestite alcuni accounts: come vive il suo rapporto con il suo pubblico sui “social”?
R. I Social sono una grandissima arma di comunicazione ma come tutte le armi hanno i pro ed i contro. Io curo la mia comunicazione su Facebook su cui ho una pagina pubblica che uso solo per comunicare quello che faccio. Non “posto” mai recensioni , pubblico volentieri le interviste che ho modo di fare con alcuni musicologi, e non ho però un rapporto diretto con i miei “seguaci” (ridendo)…“followers”. Non faccio utilizzo di social per pubblicare le recensioni come fanno alcun colleghi, più che altro cantanti, perché si dovrebbero pubblicare sia quelle belle che quelle meno belle… Io rispetto la possibilità che si ha di poter esprimere la propria opinione, così come io ho la libertà di dirigere come penso sia meglio, ma oggi “il social” ha dato la possibilità a tutti di mettere in pubblico quello che una volta si diceva tra amici, con relative conseguenze. Pur rispettando questa libertà francamente, non ritengo che tutti siano all’altezza di dire tutto. Ci sono persone più preparate e meno preparate ma il fatto solo di essere appassionato ad una cosa non ti può far credere di “saperne” di questa cosa. Il fatto di essere amico di un cantante, non ti rende in automatico una persona che “ne sa di canto”: se io conosco un pilota di formula uno non posso aver la pretesa di sapere come si pilota, posso avere la cognizione di apprezzare la gara e la cosa finisce lì. Molte volte c’è molta gente che si spinge anche in aspetti molto tecnici senza avere la capacità di capire determinate cose: fa parte del “gioco” e ci stà, ma per questo motivo non mi interessa pubblicare le recensioni. Il mio rapporto con la critica è molto particolare: non la ignoro perché la conosco, però col tempo ho imparato a farmene una ragione. Ci sono dei critici che stimo perché ne conosco la preparazione, la cultura, perché ho avuto la fortuna di essere intervistato e di parlarci ed in quei casi c’è una stima e perché so che nel momento in cui fa una critica lo fa a ragion veduta ma degli altri critici improvvisati non ne tengo conto.