Chiaroscuri echi chapliniani de La Fanciulla del West

Al Teatro San Carlo di Napoli torna in scena La Fanciulla del West in salsa cinemà confezionata da Hugo de Ana

La Fanciulla del West - © Teatro San Carlo - ph Luciano Romano

Un altro ritorno si celebra in questi giorni tra Pasqua e ponti di primavera qui a Napoli, al Teatro di San Carlo, dopo quello, in certo senso prematuro, di Don Carlo e quello più stagionato di Salome il mese scorso: questa volta si tratta de La Fanciulla del West nell’edizione per la regia di Hugo De Ana, ripresa per l’occasione da Paolo Vettori – la mia recensione di allora la trovate qui – che aprì, con qualche sorpresa, la Stagione del vetusto Teatro napoletano nel dicembre 2017, così com’era successo al Metropolitan di New York un secolo prima, nel dicembre 1910, sotto la direzione di Arturo Toscanini.

La storia, si sa, non si scrive né coi se né coi ma e dunque non sapremo mai dove la sete di perenne rinnovamento, di cui quest’opera è perenne testimonianza, avrebbe condotto Giacomo Puccini correndo incontro al suo destino: quel che sappiamo di sicuro è che lo fermò, ad un certo punto, l’umana fragilità, e ciò impedì a lui e a noi di poter ulteriormente godere di quel che, da gran mago del palcoscenico, sapeva trarre dal cappello a cilindro del suo smisurato talento. Per lui, dopo il primo insuccesso scaligero di Butterfly, il doloroso rimaneggiamento e il pieno successo di Brescia, si era aperto un periodo di inquieta incertezza alla ricerca di nuovi stimoli: la vena di grande rinnovamento che gli aveva fatto percorrere una ininterrotta catena di grandi successi, da Manon a Boheme, da Tosca a Butterfly, si era come inaridita; e poi oltralpe c’erano grandi novità, Debussy, Stravinskij, soprattutto Strauss stavano lì a ricordare ogni giorno – a uno come lui attentissimo a tutto quel che succedeva nel tempo suo – come urgesse rinnovarsi pur restando sempre fedele a sé.

Non l’aiutò di certo la morte di Giacosa e i tentativi infruttuosi di collaborazione col solo Illica, mentre naufragò definitivamente l’impossibile speranza di un lavoro con Gabriele D’Annunzio. Insieme ad Elvira partì allora per gli Stati Uniti per un primo soggiorno di due mesi, dove assistette a Broadway a The Girl of the Golden West di quello stesso David Belasco che l’aveva folgorato con Butterfly. Se la prima volta era stato benconsigliato dal suo impresario inglese Francis Nielsen, stavolta il suggerimento – caldo e insistito – venne dall’amico Piero Antinori, compagno di caccia in Maremma: l’inglese del Maestro nel frattempo non era granché migliorato, tuttavia, come la prima volta, lo colpì il profondo senso teatrale che quel dramma possedeva.

Fu allora che venne concepita l’idea de La Fanciulla del West: addio al collaudassimo schema pucciniano dell’eroina vittima sacrificale di un destino crudele, la protagonista è sì – come le altre sue eroine, checché se ne pensi – forte e indipendente, ma in questo caso Minnie sovverte fino a capovolgerli i cliché della donna sofferente, non è solo personaggio femminile carismatico, ma eroina moderna, capace di autodeterminarsi e di plasmare il proprio destino, non cadendo, come le sue consorelle, vittima, alla fine, di un destino cinico e baro.

Naturalmente in Italia l’opera non si capì – ancor oggi non la si comprende abbastanza – cercando affannosamente qua e là l’affiorare faticoso di lacerti del ben conosciuto afflato pucciniano di Boheme e Tosca in un mare procelloso di ritmi incisivi, dissonanti asimmetrie, in cui prevale la cura estrema del frammento, delle schegge d’emozione, delle reliquie adorate e subito rimosse, negate, spezzate: in questo senso è opera del Novecento più autenticamente d’avanguardia e ricerca, in cui la poetica del frammento tende a restituirci una realtà dove prevalgono i vuoti rispetto ai pieni e dove è ardua impresa ricondurre ad unità ciò che appare ormai irrimediabilmente diviso e scisso.

La Fanciulla del West © Teatro San Carlo – ph Luciano Romano

E certo bisognerebbe tener bene a mente tutto questo quando si mette in scena La Fanciulla, facile cadere nel tranello che il solito Puccini – scaltro cacciatore – tende allo sprovveduto che s’arrischi a dar retta al consueto baluginìo di false piste e ben costruiti inganni che l’Autore sapientemente costruisce a difesa del cuore più sacro dell’opera: con la consueta cura si procurò di utilizzare brandelli del folk americano che riecheggiano nel denso tessuto sinfonico dell’opera – mettendo insieme di tutto un po’, come farebbe un autore americano utilizzando insieme ‘O sole mio e La biondina in gondoleta – che, accanto all’ovvia ambientazione western, rischiano di portar inevitabilmente fuori strada, immaginando una sorta di western movie in cui la potenza del tranquillizzante déjà vu prevale sull’inquietudine e sullo sconcerto.

La sfida sembra interessare Hugo de Ana – in realtà più in apparenza che in sostanza – per costruire un’ambientazione che, se da un lato dichiara apertamente la sua ascendenza cinematografica, dall’altra la nega più e più volte, a cominciare dalla scena costruita sul bruciante preludio, in cui lo sceriffo Jack Rance distrugge con una manata – permettendo così alla vicenda di prender vita – un fondale costituito da manifesti di famosi film western anni quaranta e cinquanta: come il Prologo di Pagliacci, vuol renderci avvertiti di una realtà ulteriore rispetto al visibile, un invito a non cadere, insomma, nel tranello del facile adagiarsi su una percezione di maniera.

Così, pure nella costruzione delle scene, se da un lato sembra indulgere, la mano registica, al fascino scontato del technicolor, nelle proiezioni che costituiscono un po’ la firma distintiva del suo teatro (Projection Designer è Sergio Metalli), restituendoci un fondale da Monumental Valley col cielo terso, la terra rossa, il sole che brucia mesas e buttes erose dal vento e dalla pioggia, dall’altro la struttura stessa della Polka – due assi e una traversa – viene a suggerirci con discrezione l’origine teatrale del dramma, una sorta di teatro nel teatro che trova la sua conferma nella casa a mezzo monte della protagonista nel second’atto, che ci appare al centro della scena fragile e forte insieme, come la casa a soffietto d’altra genesi e natura, inequivocabile legame tra Minnie e Cio­Cio­San, sorellanza sostanziale pur nella diversissima forma delle cose.

Trasportando la vicenda ai primi anni del Secolo breve – i tralicci dell’alta tensione sono inequivocabili – trova modo, il regista, più agevolmente di raccontare una vicenda che non solo col western ma anche col melodramma classico ha ben poco da spartire, dove tutto è più sfumato, meno manicheo, in cui il tenore Dick Johnson (alias bandito Ramerrez), è personaggio ambiguo, più vicino ad anti-eroe romantico che a canonico protagonista tenorile e lo sceriffo Jack Rance, apparentemente il villain dell’opera, non è neanche lui antagonista in senso tradizionale: uomo disilluso e innamorato, certo, ma di sicuro non crudele persecutore, tanto da rassegnarsi a perdere il suo sogno d’amore a poker.

Un western crepuscolare, dunque, quello che ricostruisce il regista argentino, come avrebbero potuto farlo Sergio Leone o Clint Eastwood, “ripensamento” del west, sguardo critico, passione raccontata e ironica, riflesso di un passato mitico nelle incertezze dell’oggi, che perfettamente riverbera il carattere della musica: dirò di più, l’indole “cinematografica” di questo allestimento, rintracciabile in tanti particolari che nel mentre smentiscono confermano contraddittoriamente quasi per antifrasi, è da cercarsi, più che nel western – classico o spaghetti che sia – in certi modi chapliniani del trattare e demitizzare tradizioni e folcloristiche saghe, il Chaplin de La febbre dell’oro, per intenderci, apologo sul denaro e sul modo di ottenerlo, così affine alla Fanciulla per ambientazione e tematiche, o Luci della città, citato nel finale.

La Fanciulla del West © Teatro San Carlo – ph Luciano Romano

E tuttavia, alla fine si esce dalla sala con un che d’insoddisfazione addosso, De Ana avrebbe di certo potuto osare di più, la sensazione è che alla fine sia mancato il coraggio di andare fino in fondo, di rendere quel pensiero critico e quelle scelte teoriche più incisive sul piano drammaturgico e visivo, finendo per rifugiarsi in un comodo anodino decorativismo piuttosto stinto e irrelevante: in fondo è ciò che mediamente piace ai più. Così, a rivederlo oggi a distanza di qualche anno, si finisce per meditare su come il tempo agisca sugli allestimenti e sulle idee registiche come su certi vini, quelli buoni finendo per migliorarli, quelli pessimi inacidendoli alquanto, come è stato per la Salome ripresentata lo scorso mese, o banalizzandoli in acquetta cheta, come in questo caso, obbedendo anche le caratterizzazioni di certi personaggi – Jack Wallace (Gabriele Ribis) reso cieco e guidato da un ragazzino o Wowkle (Antonia Salzano) ancora incinta piuttosto che già mamma – ad una estrema spinta sul colore e il pittoresco piuttosto che sul senso, scontando non tanto la pochezza delle idee – che in fondo ci sarebbero – quanto l’incompiutezza e la mediocrità nel realizzarli, in un eterno e stucchevole vorrei ma non posso.

Sul piano musicale, poi, a partire dalla direzione di Jonathan Darlington, occorre fare alcune premesse, a completamento di quanto già detto a proposito della scrittura musicale di quest’opera, così complessa e particolare: perché Puccini volle una tessitura armonica perfettamente in linea con la sensibilità del primo Novecento, staccandosi dalle melodie orecchiabili delle sue opere precedenti per adottare uno stile più sinfonico, in cui fosse possibile leggere la partitura come strutturata in più strati, con diversi possibili livelli di comprensione e fruizione, che in qualche modo e in diversa misura si commisurassero a quanto fruito sulla scena.

Così, se al livello più elementare c’è il complesso che potremmo chiamare del folclore western, insieme alla poetica del frammento dalle melodie enunciate e poi negate, in profondità, ben strutturate in solide e affidabili fondamenta, troviamo il ritorno alle forme musicali wagneriane, riconosciute come evidente fonte di possibile modernità: è da ascriversi a questo non solo l’uso ormai sofisticatissimo del leitmotiv – meglio anche dei Mahler o degli Strauss, verrebbe da dire con una punta d’orgoglio – ma anche, e soprattutto, la particolarissima tinta sonora ruvida, incisiva, l’armonia che si avventura in cromatismi audaci e accordi di settima e nona sovrapposti per esitare in un linguaggio armonico dissonante e spigoloso.

Di tutto questo resta ben poca traccia nella conduzione del direttore britannico, molto intento, ci è sembrato, in una operazione piuttosto manierata alla ricerca affannosa di un Puccini ormai del tutto superato all’epoca della composizione, cercando invano di riesumare imbalsamate melodie e improvvisi trasalimenti da altiosonanti coup de théâtre piuttosto che valorizzare il nuovo che emerge dalla partiture, i contrasti, le dissonanze, o anche solo il lavoro dei cantanti sul palcoscenico, così che spesso il clangore dell’orchestra soverchiava le voci: il risultato è stato purtroppo spesso sconcertante.

La Fanciulla del West © Teatro San Carlo – ph Luciano Romano

Anche il Coro, guidato da Fabrizio Cassi, paga caro il mancato raccordo con il podio sbagliando quasi tutto nel primo atto per poi fortunatamente riprendersi e finire in gloria, cosa che purtroppo succede spesso: sarà l’emozione del primo atto della prima. Nel cast ci sono alcuni cantanti ben conosciuti accanto ad altri che stiamo imparando a conoscere, altri ancora del tutto sconosciuti: tra questi ultimi c’è il Dick Johnson di Martin Muehle, tenore tedesco-brasiliano al suo esordio nel nostro Teatro, che ha voce scarsamente espressiva, tuttavia dalla buona intonazione e dall’ottimo squillo, una prestazione tutto sommato sufficiente anche se non paragonabile di certo al Jonas Kaufmann dei tempi migliori, come in certe immaginifiche critiche si legge: certo ha dalla sua anche la scusante di un fastidioso attacco di allergia che lo avrebbe colto nel corso dello spettacolo di ieri sera, cosa di cui ci ha gentilmente informato una speaker alla fine del secondo intervallo.

Avevamo invece già ascoltato e avuto modo di apprezzare nei panni di Rodrigo di Posa nel Don Carlo di gennaio scorso (la recensione è qui) Gabriele Viviani come interprete di sicuro talento, la notevole presenza scenica insieme alla voce di gran potenza ha disegnato un personaggio, quello dello sceriffo Jack Vance, che in quest’opera volutamente naïve ha più d’una obliquità di troppo, profondità da esplorare, lati in ombra fa esorcizzare: quel che ci vuole, insomma, per far scolorire cattivi interpreti ed esaltare i migliori e ieri sera certo lo sceriffo non era per nulla scolorito, anzi riempiva la scena.

Ben conosciamo invece Anna Pirozzi, l’ultima volta ascoltata qui a Napoli incolpevole protagonista di una Norma piuttosto incolore (recensita qui) che mi par di ricordare doveva esser Minnie già nell’edizione del 2017, sostituita poi in extremis da Emily Magee: beniamina del pubblico napoletano, la sua interpretazione potente e allo stesso tempo misurata riscuote gran successo e molti applausi: in una recente intervista ha dichiarato la sua perplessità nell’affrontare questo ruolo perché immaginava fosse solo potenza vocale.

E la potenza vocale certo c’è tutta, la determinazione che le è propria anche, ma pure timbro vellutato e multiformi sfumature, qualche eccessiva rigidità nel primo atto – l’emozione gioca brutti scherzi per tutti, come si vede – il personaggio esce fuori alla fine sbalzato a tutto tondo da quella splendida attrice e primadonna qual è il soprano napoletano che, leggo, sarà anche Odabella nell’Attila in forma di concerto, sempre qui al San Carlo, di fatto contemporaneamente alle repliche di questa Fanciulla: non possiamo che farle gli auguri ammirati del coraggio e della tempra, non è certo da tutti un tale tour de force!

SOTTOTITOLO
Al Teatro San Carlo di Napoli torna in scena La Fanciulla del West in salsa cinemà confezionata da Hugo de Ana

PANORAMICA
Regia 3
Direzione 4
Solisti 4
Orchestra 4
Scenografia 4
Costumi 4
Pubblico 4

SOMMARIO

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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chiaroscuri-echi-chapliniani-de-la-fanciulla-del-westLa fanciulla del West <br>di Giacomo Puccini <br> Direttore, Jonathan Darlington <br> Regia, Scene e Costumi, Hugo De Ana <br> Light Designer, Vinicio Cheli <br> Projection Designer, Sergio Metalli <br> Minnie, Anna Pirozzi <br> Jack Rance, Gabriele Viviani <br> Dick Johnson, Martin Muehle <br> Nick, Alberto Robert <br> Ashby, Mariano Buccino <br> Sonora, Leon Kim <br> Sid, Lodovico Filippo Ravizza <br> Trin, Antonio Garés <br> Bello, Clemente Antonio Daliotti <br> Harry, Gregory Bonfatti <br> Joe, Sun Tianxuefei <br> Happy, Pietro Di Bianco <br> Larkens, Lorenzo Mazzucchelli <br> Billy Jackrabbit, Sebastià Serra <br> Wowkle, Antonia Salzano <br> Jack Wallace, Gabriele Ribis <br> José Castro, Yunho Kim <br> Un postiglione, Michele Maddaloni <br> Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br> Maestro del Coro, Fabrizio Cassi <br> Produzione del Teatro di San Carlo in coproduzione con ABAO Bilbao Opera <br> Opera in italiano con sovratitoli in italiano e inglese <br> Durata: 3 ore e 15 minuti circa, con due intervalli <br> In scena dal 16 al 29 aprile 2025 <br> Napoli, Teatro di San Carlo, 16 aprile 2025