
Con la ripresa dell’Anna Bolena di Gaetano Donizetti, targata Vick 2007, si avvia verso la conclusione la stagione operistica del Teatro Filarmonico di Verona per Fondazione Arena di Verona. Manca, infatti, ormai solo un titolo alla conclusione di questa stagione curiosa ed equilibrata e sarà con Salomè di Richard Strauss (proposta in un nuovo allestimento per la fondazione firmato dalla regista Marina Bianchi che sostituisce quello precedentemente previsto di Gabliele Lavia per insormontabili problemi tecnici). Poi, quasi sena soluzione di continuità, aprirà i cancelli la stagione estiva che già si preannuncia ricca di appuntamenti imperdibili.
Proporre Anna Bolena, significa proporre al pubblico uno dei capisaldi del Belcanto italiano: cucito addosso alle voci migliori dell’epoca (Giuditta Pasta, Filippo Galli e Giovanni Battista Rubini, per la cronaca) risulta impresa quanto mai ardua per chiunque poter rivestire quelle vocalità così personali. Nulla viene risparmiato in questa scrittura vocale che impone per esempio passaggi di coloratura al basso che al tempo stesso abbia la nobiltà timbrica richiesta al ruolo, richiede la continua esposizione alla zona acuta e sovracuta al tenore che comunque non deve perdere il contatto con la propria identità eroica, esige l’impiego di due prime donne di alto livello che sappiano tenersi testa padroneggiando completamente agilità, emissioni vocali, pianissimi e fortissimi oltre che saettare nelle zone più acute; se a tutto questo aggiungiamo il ruolo non certo marginale del contralto e di tutti gli altri personaggi, davvero diventa gioco durissimo trovare chi sappia incarnare questo capolavoro donizettiano. Ma ciò che rende una proposta come questa ancora più difficile è saper rendere la tensione di questo dramma che tutto ha tranne quello di essere un mero susseguirsi di brani da “metodo vocale”: qui il ruolo di direttore e di regista dovrebbero compiere il miracolo. “Miracolo” che qui a Verona non si è realizzato, se non ad intermittenza.
Lo spettacolo di Graham Vick non mi convinse nel 2007 e non mi ha convinto nemmeno oggi. Intendiamoci subito: Vick è un grande uomo di teatro e lo spettacolo è in sé bello e raffinato. Tante le idee sul palcoscenico e alcune di rara suggestione: il problema, come sempre ma non solo nel caso di Graham Vick, è che di idee ce ne sono troppe. Questo porta ad avere in scena un susseguirsi di “intuizioni” e non ad un vero approfondimento delle idee stesse: un concetto cardine che trovi una traduzione nel linguaggio teatrale. Prendiamo ad esempio le pareti in plexiglass che riproducono suggestivamente alcuni elementi architettonici del palazzo di Enrico VIII e da cui ogni tanto è possibile leggere, in trasparenza, ciò che avviene nel controscena: già questa di per sé avrebbe potuto rappresentare “il concetto”, la chiave di lettura all’intero dramma facendoci davvero sentire quanto fossero claustrofobiche quelle stanze ormai ostili ad Anna ed ai suoi fedeli. Stesso discorso potrei farlo della nevicata che da bianca diventa rossa nel finale, della corona di spine, del trono e del letto, della croce che si sfalda, dei capelli tagliati della Bolena, eccetera… Ci si ferma appunto all’idea, al far intuire la cosa senza farla davvero sentire al pubblico: così un allestimento come questo, pur nella sua bellezza ed intelligenza, diventa per assurdo didascalico. Manca il teatro, in quella forma artistica che si chiama teatro d’Opera. Non è permesso al pubblico sentire dentro di sé lo spettacolo perché tutto è troppo complesso e dettato, o meglio, imposto dall’esterno.
Quanto alle scene ed ai costumi di Paul Brown rispecchiano il sovraccarico didascalismo della regia, con un demerito riguardi ai costumi. Se per la parte maschile si è optato per una intelligente, quasi geniale, rivisitazione dei quadri cinquecenteschi che ritraggono Enrico VIII e la sua corte, perché questo non è stato per le due regine? Perché tradire il taglio visivo? Per Anna e Giovanna, infatti si è optato per vestiti più riconducibili ad un’estetica di fine Ottocento: gonne con code a strascico, di cui una addirittura a sirena, crinoline, balze, tabliers e rouches. Così facendo si è tolto molto alla identità dei personaggi ed alla loro giusta collocazione anche nello stesso spettacolo.
Sul piano musicale le cose sono andate però meglio.
Jordi Bernacèr dirige l’Orchestra della Fondazione Arena di Verona con mestiere ma poco più, manca l’effettiva comprensione del Belcanto. Seppur i tempi ed i volumi orchestrali siano nel rispetto dei cantanti manca proprio il canto, manca la tensione psicologica, il pathos e l’intesa, anche musicale con la scena. Peccato perché in Arena ha dato un’ottima prova nella stagione estiva.

Photo Ennevi
Quanto ai cantanti, ho assistito alla recita del 2 maggio, quindi posso riferire del cast alternativo. Elena Mosuc ha tutte le carte in regola per essere Anna Bolena. La voce è rotonda piena, aristocratica, ricca di colori e corre facilmente lungo le agilità scritte da Donizetti non lesinandosi in pianissimi, messe di voce e sovracuti. La sua non è tuttavia solo una lezione di canto, bensì tutto concorre a creare un personaggio vivo e sentito e lo si intuisce da come rende vere certe frasi come la micidiale “Giudici ad Anna”. Meravigliosa la sua esecuzione di tutti i passaggi lirici partendo dall’attacco sospeso e impalpabile di “In quegli sguardi impresso” fino all’aria finale “Al dolce guidami”, la cui lettura è da conservare per sempre nella propria memoria. Sicuramente anche se non tutto è perfetto, specie in una serata in cui non mi è sembrata in perfetta forma (avendola ascolta anche in altre occasioni), ha dato prova di essere una autentica fuoriclasse.

Foto Ennevi
Accanto a lei rivaleggia l’eccellente prova del giovane mezzo soprano Annalisa Stroppa: voce sensibilissima e fresca, tecnica agguerrita e figura avvenente ne fanno una rivale più che temibile. Di tutto il cast sicuramente si è dimostrata quella più a suo agio siglando una prova maiuscola in un ruolo vocalmente impervio ed interpretativamente contraddittorio come pochi: sarà che l’ipocrisia non piace a nessuno ma il mezzosoprano è riuscito a rendersi credibile ogni sua frase. Ottima l’omogeneità vocale retta da una tecnica solida che non le concede licenze e che lega il registro di petto alla maschera in un ottimo timbro misto proiettando la voce in sala, che riempe a dovere pur non possedendo un mezzo vocale di ampissime proporzioni. Con tale artista il duetto tra le rivali ha rappresentato un momento topico della serata.
Accanto a lei il basso Mirco Palazzi, ha siglato una prova seducente. Interprete raffinato, è riuscito a dare una lettura sensuale e fascinosa del suo Enrico, tralasciando intelligentemente il lato protervo del personaggio per cui la voce non sarebbe ancora abbastanza matura. L’emissione è sicura e ben proiettata, con agilità nitide. Ottima l’intesa scenica con Annalisa Stroppa nella loro liaison dangereuse.

Photo Ennevi
Più sofferente nella vocalità che fu di Rubini il tenore Mert Sungu le cui buone doti vocali ci sono e preludono ad una carriera promettente, tuttavia deve ancora lavorare sull’emissione che a volte risulta incerta e non del tutto a fuoco a scapito di una riuscita completa.
Manuela Custer è uno Smeton di tutto rispetto anche se come tanti “en travesti” ha la tenenza a gonfiare i suoni nel registro grave. Merita una menzione l’ottimo Lord Rochefort portato in scena da Romano Dal Zovo: la voce è mirabilissima con un timbro da basso nobile, fraseggia molto bene. Chiude discretamente il cast il Sir Harvey di Nicola Pamio.
Ottima la prova del coro così come l’orchestra: entrambi stanno dimostrando una crescita sempre maggiore di allestimento in allestimento.
Un pubblico entusiasta, composto anche da ragazzi delle scuole, ha giustamente reso omaggio a tutti gli artisti impegnati.