
[rating=3] Un sellino, fiato nei polmoni, forza nelle gambe e molti premi, tra cui Tre Giri d’Italia e due Tour de France. Gino Bartali è un’icona del ’900 e, per molti, l’eterno rivale di Coppi. Tutti lo conoscono e, pressappoco, tutti lo ricordano così.
E’ Oliviero Beha, giornalista sportivo, scrittore e saggista, ad arricchire con una tessera preziosa questo poliedrico mosaico di uomo di sport e di mondo. Dopo aver sfogliato il suo libro “Un cuore in fuga”, edito da Piemme nel 2014 per il centenario della nascita del campione italiano, l’atleta Bartali diventa l’eroe toscano che, durante il secondo conflitto mondiale, ha salvato da morte certa almeno 800 ebrei, in sordina, nel silenzio, cercando di non farsi scoprire per avere salva la vita e continuare la sua missione.
Nel 1943 le leggi razziali mettono in ginocchio l’Europa e circa 15.000 ebrei si trasferiscono in Italia per cercare scampo alla follia di Hitler. Non sanno che nel Belpaese incapperanno nei controlli del regime fascista.
Bartali ha già vinto due volte il Giro e un primo Tour; è un atleta famoso e potrebbe godersi i suoi successi, ma stavolta sceglie di pedalare per una coppa più importante. Fingendo di allenarsi, diventa una sorta di staffetta per la rete clandestina Delasem, trasportando documenti falsi alle famiglie ebraiche in cerca di nuova identità. Sono centinaia, addirittura migliaia i chilometri, macinati avanti e indietro da Firenze, con questi lasciapassare verso la salvezza, destinati a molti uomini, nascosti nel sellino e nel manubrio.
“Se ti scoprono ti fucilano”, è il monito che rivolge al campione un atterrito Cardinale Dalla Costa, ma Bartali si dimostra cristiano, ancor prima che democristiano e non si ferma. Continua a pedalare e a salvare vite.
Non sa che dopo molti anni sarà nominato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem di Gerusalemme, il memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell’olocausto, fondato nel 1953, vedendosi insignito di un riconoscimento che viene assegnato ai non ebrei che durante la persecuzione del regime hanno salvato anche solo una vita ebraica.
Bartali tutto questo non può saperlo. Pedala e basta. Pedala a rischio della vita e porta con sé questo segreto per tutta l’esistenza, senza mai rivelarlo.
E’ una storia, questa, di coraggio ed eroismo, di sport e autenticità umana, rimasta sconosciuta per quasi 70 anni e venuta alla luce solo nel 2013 per poi venire consacrata da Beha nel suo libro con uno stile narrativo di immediato impatto e chiarezza che rapisce il lettore e lo trasporta nella narrazione.
Beha, nato nel 1949 a Firenze e quindi conterraneo di Bartali e innamorato dei luoghi e della terra calpestata dalle ruote del ciclista, dà prova di essere un cronista sportivo d’esperienza, potendo vantare, nel suo percorso professionale, collaborazioni con “Paese Sera”, “Tuttosport”, “Repubblica”, a cui si affiancano le esperienze in Rai con programmi molto seguiti come “Radio Zorro”, “Radio a colori”, “Va’ pensiero”, fino in anni più recenti a “Brontolo”.
Tra le pagine del suo scritto, a metà tra saggio e romanzo, Beha però si dimostra non solo un abile giornalista sportivo ma, anche e soprattutto, un narratore capace di cogliere le sfumature dell’anima del suo protagonista e, di farlo, senza mai scadere nel retorico.
“Gli è tutto sbagliato. Gli è tutto da rifare”, amava dire spesso Bartali col suo accento toscano. Aveva ragione. Pagine e pagine di storia andrebbero riscritte da capo, con nuovo inchiostro, nuova trama e nuove lettere. Probabilmente pensava anche a questo quando si lasciava scappare questa esternazione. Ecco, questo libro parla di un uomo che, a prezzo della propria incolumità, ha tentato “di rifare”.