Ripley: la serie dell’anno… Da vedere in lingua originale!

Netflix trasla il racconto della scrittrice statunitense nella serialità con un piccolo grande esercito di attori italiani (e non solo)

Andrew Scott nei panni di Tom Ripley, protagonista della serie Netflix.
Andrew Scott nei panni di Tom Ripley, protagonista della serie Netflix.

Atmosfere sospese, contrasti vividi, facce indimenticabili. Basterebbero forse questi tre elementi a sintetizzare quel piccolo capolavoro che è Ripley. La min-serie in 8 puntate targata Netflix e diretta da Steven Zaillian, rimette in scena il celebre personaggio creato dalla penna di Patricia Highsmith: Tom Ripley. L’antieroe zelighiano, che vive assumendo le identità altrui, il Lupin doppelganger, la maschera Adriano Meis. A lui, la geniale e prolifica scrittrice americana, un poco snobbata dalla critica dei premi prezzolati, dedicò ben cinque libri, tutti di successo fra il grande pubblico.

Già perché Tom, non è un personaggio come gli altri. Tecnicamente è il “cattivo”, eppure al tempo stesso il perno centrale della narrazione di delitti e scambi di identità di cui si fa protagonista (suo malgrado?). Attorno a lui un nugolo di “spalle” che non riescono mai a strappargli lo scettro di focus del thriller. Non c’è un vero antagonista, l’antagonista e il protagonista sono la stessa persona e come non poteva essere altrimenti in questo viaggio dell’eroe che è in fondo un tornante identitario (pure se a strapiombo lungo le torbide acque del crimine?). Questo fino a Ripley, la versione seriale che Zaillian adatta e trasforma rimanendo però, se non fedelissimo, in qualche modo aderente al mood della Highsmith.

Non c’era riuscito fino in fondo Minghella, che nel 1999 firma con un cast stellare “Il Talento di Mr. Ripley”. Il film riceve una pioggia di candidature, ma alla fine vince poco e niente. Tutt’altro che un cattivo prodotto filmico, ma forse manchevole di quella spinta noir tanto cara alla scrittrice texana.

Prima di lui ci avevano già provato il maestro del brivido Hitchcock, René Clément in Francia con “Plein Soleil”, affidando furbescamente il ruolo di Tom al fascinoso Alain Delon, poi ancora Wim Wenders, Claude Chabrol e diversi altri. Nel post Minghella anche un talento made in Italy: Liliana Cavani con “Il gioco di Ripley”, fino poi ad arrivare al 2022 con Adrian Lyne, l’uomo dietro la macchina da presa di “Nove settimane e mezzo”, “Attrazione fatale”, “Proposta indecente”, “Lolita” (sì ce n’è un'”altra” famosa oltre a quella di Kubrick), insomma uno che di morbosità se ne intende. Il totale è quasi un record: 17 film su Tom Ripley.

Quasi tutti ben scritti e/o realizzati, con licenze più o meno ampie dal testo originale, ma si sa, quando c’è di mezzo un passaggio da un mezzo artistico all’altro bisogna “tradire” nel senso latino, appunto per “tramandare”. Allora in cosa si è distinto Zaillian? Parrà banale, ma aldilà delle azzeccatissime atmosfere al limite dell’horror che fanno di ciascun episodio un raffinato quadro a sé stante, quello che a mio avviso ha fatto la differenza è stata proprio la scelta della serialità.

Già perché un personaggio come Tom Ripley la chiama, la invoca, ci si tuffa dentro, vuole restarci intrappolato come fra le onde di Atrani. In seconda battuta lo spirito più crudo e autentico dell’autrice. In Ripley finalmente esplode con tutto il suo carico di ombre e ambiguità, in cui sento riecheggiare le pagine di Francesco Mastriani e Carolina Invernizzi. Proprio loro, i maestri “pop” del romanzo d’appendice, di cui forse la Highsmith non poteva raccogliere l’eredità culturale, ma dei quali in qualche modo fa sue, ibrida e trasforma le istanze.

Maurizio Lombardi nei panni dell'ispettore Pietro Ravini in "Ripley".
Maurizio Lombardi nei panni dell’ispettore Pietro Ravini in “Ripley”.

Qualcuno forse storcerà il naso all’accostamento, ma la verità è che piattaforme come Netflix e compagni, gli devono tutto e chi scrive e lavora in questi contesti lo sa bene. A voler investire un poco della propria formazione letteraria in una manciata o più di narrazioni come quelle che ho citato, il paragone parrà molto meno audace. Zaillian come da copione originale del primo libro della pentalogia (The Talented Mr. Ripley), punta poi sulle “maschere” italiane (la scena è ambientata in varie location in Italia) e fra queste una è sicuramente quella che ha segnato lo scarto fra le speculazioni precedenti.

Ho scritto all’inizio che nessuno poteva contrapporsi davvero a Tom Ripley, antagonista di sé stesso, sempre in bilico fra l’autoaffermazione ad ogni costo e il rifiuto del baratro da lui generato. Ebbene nella collana di film firmati dalla stessa penna di “Schindler’s list” (di cui si coglie praticamente ovunque una calzante ispirazione e non certo solo per la scelta del bianco e nero) spunta invece un personaggio “contro”. È l’ispettore Pietro Ravini, che in una Roma spettrale e inquieta cerca di ricostruire il fil rouge delittuoso di Mr. Ripley. A interpretarlo nella serie Maurizio Lombardi, fantastico trasformista della pellicola, uno che può davvero vestire con efficacia qualsiasi ruolo, attualmente in vero stato di grazia.

La sua è una carriera lunga e piena di interpretazioni pregevoli, non ultime a teatro, di cui Lombardi si è nutrito a pieni polmoni (e si vede). Suo l’indimenticabile balletto del cardinal Mario Assente in “The new pope” (al quale la celebrata dance della Ortega in “Mercoledì” deve qualcosa), dove peraltro lavora anche il buon Malkovich, che comparirà anche sulla chiosa di Ripley. Attenzione spoiler: che chicca il “passaggio di consegne” finale fra Andrew Scott e appunto John Malkovich, lui che proprio ne “Il Gioco di Ripley” della Cavani vestiva i panni di Tom Ripley. Accidenti quante citazioni, ma dopotutto la serie presta il fianco, tanto ne è pregna, basti quella sul David di Caravaggio, che raffigura nel quadro due versioni di sé stesso: giovane e vecchio, eroe e sconfitto.

Tornando a Lombardi, ecco è lui l’unico vero character (e non uso a caso il termine inglese) che può contrapporsi al protagonista, uno che se non fosse per la cucitura (forse) a doppio filo dell’ultima puntata, non dispiacerebbe affatto veder comparire in altri sequel della serie… (ma chissà, chissà). Il suo viso resta scolpito e tira di fioretto a filo di sguardi con quello di Andrew Scott, indiscusso gigante di Ripley. Apprezzato in “Fleabag” e di recente in “Estranei“, in questa serie tra fuori il meglio del suo talento… Ecco adesso cado io nel citazionismo. Nel racconto dovrebbe avere sui 25-30 anni, ma lui ne ha in realtà 47. Poco importa, è assolutamente credibile, in ogni minimo dettaglio, studiato, soppesato e restituito oltre lo schermo allo spettatore, che non può fat altro che bere avido ogni cosa da quegli occhi così pieni di tutto.

Scott-Lombardi insomma sono la coppia narrativa di cui era orfana la narrazione su Tom Ripley. Lo sottoscrivo. Gli altri interpreti parimenti azzeccati (plauso ai casting di Barbara Giordani, Avy Kaufman e Francesco Vedovati), dalla splendida Dakota Fanning all’incredibile Eliot Sumner, così come Johnny Flynn che regge botta, anche se forse meno brillantemente di Jude Law nei panni dello sbiadito Dickie. Non parliamo poi della cura sugli oggetti di scena, in pratica vorrei possederli tutti, incluso il Picasso, pure se è una copia off course.

Ma non si dimentichi il piccolo grande esercito di attori italiani che lascia il suo doveroso segno. In primis Margherita Buy che come sempre si porta a casa il suo, ma poi anche Vittorio Viviani, Massimo De Lorenzo, Renato Solpietro, Francesco Foti, Loredana Piedimonte, solo per citarne alcuni. Coadiuvati manco a dirlo da “minori” (solo per il numero di battute) compagni di ciak stelle e strisce, su tutti Fisher Steven l’iconico Ben Jahrvi di “Corto circuito” che, invecchiando, assomiglia prepotentemente a Frank Caprio, il giudice buono più famoso di Tik Tok.

Insomma Ripley è la serie dell’anno. Una vera perla, anche dal punto di vista registico, seppur non per tutti, ma personalmente mi dissocio dalle critiche di “lentezza” della scena o dei troppi silenzi, io sono cresciuta a pane Barry Lindon e Celentano. Ironia a parte la serie merita un nutrito palmares, che coroni l’ampio riscontro del pubblico e inauguri la riscoperta tanto della Highsmith quanto degli appendicisti nostrani.

Nel frattempo (altro spoiler) io mi inchino prima al direttore della fotografia e poi all’ultimo episodio: “Narcissus”, come noto, nome di un fiore odoroso, che però forse non molti sanno derivi da un verbo greco che significa “stordire”, la precisa sensazione che ci pervade di fronte alle prodezze del narciso per eccellenza Tom Ripley. Lasciando Venezia, assume una nuova identità sulla falsariga dell’omonimo studente del semi sconosciuto romanzo di Hawthorne (quello de La lettera scarlatta): “Fanshawe”, che nella serie è Fanshaw, ma pronunciato dall’accento del Midwest di Malkovich suona al mio orecchio un po’ come “falso”… Quanta roba gente! Mi fermo o questa recensione viene lunga come La Recherche.