In attesa di “Baccanti fare schifo con gloria”

Intervista agli artisti, in vista del debutto milanese al Teatro Fontana (23 e 24 aprile 2025)

“Baccanti fare schifo con gloria”
“Baccanti fare schifo con gloria”

Baccanti – fare schifo con gloria non è uno spettacolo da interpretare, ma un rito da attraversare. Una discesa collettiva nell’inconscio, nell’osceno, nel margine. Tre corpi femminili, completamente nudi, si muovono tra urla, immondizia, violenza, gioco e tenerezza.

In attesa del debutto milanese al Teatro Fontana (23 e 24 aprile 2025), ho incontrato il regista e coreografo Giulio Santolini — e, quasi per caso, anche la drammaturga Lorenza Guerrini — per entrare nel cuore del processo creativo e capire se si possa davvero “fare schifo con gloria”. Il responso? ‘Capire’ non è la parola giusta; nel dionisiaco, la razionalità non aiuta. Bisogna lasciarsi andare, rinunciare alla forma, perdersi. E poi, forse, rinascere.

Qual è il significato profondo del titolo dello spettacolo? C’è una sorta di provocazione?

Giulio Santolini: «Sai, a me non interessa la provocazione fine a sé stessa. Quello che voglio è un attivatore: qualcosa che faccia partire una riflessione — non sullo spettacolo, ma su chi siamo.

“Fare schifo con gloria” significa portare alla luce ciò che normalmente teniamo nell’ombra: il biologico, l’osceno, l’incontrollabile. Tutto ciò che culturalmente etichettiamo come “schifoso”. Ma quella parte esiste, e va accolta. Anzi, va glorificata. È la sfera del dionisiaco, che racchiude in sé eros e sacralità, ma anche gioco, ambiguità, mescolanza. Una forza che mette in crisi i confini: tra umano e natura, maschile e femminile, uomo e bestia, animale e pianta. Il palco diventa lo spazio dove queste dicotomie saltano, dove il corpo può esistere senza dover spiegare nulla. Non c’è una morale, non c’è un messaggio. C’è una materia che invita il pubblico a reagire.»

Che tipo di relazione si è instaurata con le performer durante il processo creativo? E quali dispositivi drammaturgici e corporei avete messo in campo per costruire insieme lo spettacolo?

«In scena ci sono tre corpi molto diversi: Ilaria Quaglia, danzatrice professionista, e Mariangela Diana e Veronica Solari, che provengono invece da una formazione prettamente teatrale. Mi interessava proprio questo contrasto: cosa accade se, in un lavoro sul movimento, inserisci corpi non allenati al linguaggio specifico della danza contemporanea? Corpi che non rispondono ai codici tecnici ed estetici a cui siamo abituati? Proprio per questo, il processo creativo è stato costruito come un accompagnamento reciproco, fondato su un approccio orizzontale alla creazione. La mia idea iniziale, ad esempio, prevedeva un percorso di graduale avvicinamento alla nudità. In sala prove, però, tutto è cambiato. Le performer hanno saltato tutte le fasi, si sono fidate, si sono messe in gioco completamente. Il risultato è che lo spettacolo non è recitato: è vissuto. È fatto di materiali che vengono da loro, dai loro corpi, dalle loro storie. E questo, secondo me, lo rende profondamente vero.»

“Baccanti fare schifo con gloria”
“Baccanti fare schifo con gloria”

Quale tipo di relazione desideri instaurare con il pubblico? Quali reazioni hai constatato?

«Nella tragedia euripidea, il grande conflitto è tra l’apollineo e il dionisiaco, tra Penteo e Dioniso, tra razionalità e libertà assoluta. Nel nostro spettacolo, questo conflitto si specchia nel rapporto col pubblico. Alcuni spettatori, ad esempio, faticano ad accettare che le attrici parlino una lingua inventata: restano bloccati su un piano razionale. Altri, invece, si lasciano andare e si ritrovano dentro la dinamica dionisiaca. Ne emerge un rimescolamento di posizionamenti. Tutti condividono però una certa scomodità — leggera, mai violenta — che mette in discussione. Qual è il tuo rapporto con il corpo? Con l’osceno? Con l’alterità? Il pubblico è chiamato a partecipare in modo attivo, la sua posizione è continuamente sollecitata.»

(Mentre parliamo, entra quasi di soppiatto Lorenza Guerrini, drammaturga dello spettacolo. Ne approfitto per farle un’ultima domanda, in presa diretta.)

Uno dei temi centrali delle Baccanti di Euripide è la maternità, ribaltata in forma estrema attraverso il figlicidio. Nel vostro lavoro, invece, sembra emergere un gesto opposto: una sorta di risarcimento del legame con la madre terra, evocato da un palco disseminato di rifiuti con cui le performer interagiscono fisicamente. Come avete lavorato su questo tema?

Lorenza Guerrini: «Siamo partiti da un libro di Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua, che riflette su come il futuro distopico che temiamo sia in realtà già il nostro presente. Ormai dentro di noi c’è tutto: plastica, tecnologia, mutazioni. Abbiamo immaginato, un po’ come nel libro, una tribù di donne — figlie del sole nero — che abita un paesaggio fatto di scarti, di errori, ma anche di possibilità. Ci ha ispirati molto anche il lavoro di Bartolina Xixa, una performer sudamericana che abbiamo visto alla Biennale di Berlino: canta e danza tra i rifiuti del fast fashion, in pieno deserto, mescolando performance drag e tradizioni antiche. Un’immagine potentissima.»

E la maternità?

Lorenza Guerrini: «Si tratta ovviamente di un tema centrale in Euripide, ma abbiamo scelto di affrontarlo da un’altra angolazione. Le nostre Baccanti rifiutano la cura come dovere. Si rifugiano nei monti, vivono relazioni affettive in una dimensione segreta, rituale. Per questo, l’atto di Agave che uccide il figlio diventa, nel nostro lavoro, un gesto simbolico: un’insubordinazione al ruolo imposto, un modo per uccidere quella parte di sé che si sente obbligata a incarnare un certo comportamento. È come se, per entrare nello spettacolo — anche da spettatore — si dovesse partorire un nuovo sé. Un simbolo, certo, ma anche un modo per dire che un’altra nascita è possibile.»

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