
Simone Cristicchi, classe ’77, nasce a Roma dove coltiva parallelamente la sua passione per il fumetto e per la musica cantautorale. Jacovitti e Sergio Endrigo, Syd Barrett e Fabrizio De Andrè. E poi l’incontro folgorante con il teatro. E poiché musica, arte e teatro si mescolano vorticosamente in lui, inutile tentare di incasellarlo a forza in una categoria, perché ci starebbe stretto. Ora è per l’appunto a teatro con lo spettacolo “Il secondo figlio di Dio” (★★★★ leggi la recensione), tratto dal suo omonimo libro. Un soggetto insolito per uno spettacolo intenso. “Intercettato” mentre andava al Teatro Vittoria, gli abbiamo fatto qualche domanda sull’argomento.
Partirei dalla scelta insolita del soggetto di questo tuo nuovo lavoro “Il secondo figlio di Dio”
Ho frequentato molto il territorio di Arcidosso e del Monte Amiata per un altro progetto che era quello del coro dei minatori di Santafiora, coro di musica popolare e tra di loro c’era uno studioso di Lazzaretti che mi regalò dei libri: è iniziato tutto da lì sei o sette anni fa.
Poi in un secondo momento è arrivato Manfredi Rutelli, drammaturgo romano trapiantato in Toscana, nonché regista, che mi ha proposto un monologo teatrale su questa figura. Ma in realtà nemmeno quello mi aveva convinto poi ad occuparmi di questa storia.
In realtà il momento decisivo è stato quando ho visto il monte Labbro, visitando questo luogo così suggestivo, lì ho sentito che era il caso di approfondire l’argomento. E’ stato il luogo in sé che mi ha spinto ad addentrarmi nei meandri di questa storia.
Ritorni a lavorare con Antonio Calenda col quale avevi già collaborato in occasione di “Magazzino 18”
Con “Magazzino 18” Calenda mi ha fatto fare un salto di qualità. Diciamo che prima ero un semplice narratore e invece lui mi ha insegnato l’arte di recitare. Per me che non ho mai fatto un corso o un accademia, lui è stato un grande maestro insieme ad Alessandro Benvenuti.
Così nel momento in cui c’era da fare questo nuovo lavoro e il teatro stabile di Brescia l’ha voluto produrre, ho pensato subito a lui ed è gli ho affidato una sfida molto più complessa di “Magazzino 18”, perché parlare di religione, di spiritualità su un palco è abbastanza arduo. Lui ha avuto quest’idea geniale, direi fenomenale, di affiancarmi un carro ottocentesco, che in realtà è una ricostruzione. Il carro in realtà è una vera e propria macchina teatrale in continua mutazione. La scenografia è da un lato molto minimale, ma dall’altro ricchissima perché da questo carro esce di tutto, un po’ come dalla borsa di Mary Poppins, e lui stesso si trasforma in mille cose.
E’ uno spettacolo molto faticoso, Calenda ha voluto che io faticassi sul palco. Sudassi sette camice, un solo attore sul palco che racconta una storia del genere deve faticare, ma a quello c’ero abituato anche dagli altri spettacoli, invece lui voleva mettere in scena proprio la fatica di quest’uomo che lotta contro se stesso e contro il mondo. E di conseguenza esce fuori “questa grande fatica” che è una performance teatrale particolare. Io credo di essere uno degli attori teatrali che fatica di più sul palco in questo momento in Italia. Forse solo Antonio Rezza potrebbe strapparmi il primato. Calenda ha voluto lasciare questa mia naturalezza. Mi ha guidato, mi ha dato indicazione e dritte per caratterizzare un personaggio, ma mi ha lasciato sostanzialmente libero, preservando questa mia naturalezza.
Vedendo i tuoi primi lavori teatrali si avvertiva la tua vicinanza col teatro di narrazione, ora sembra esserci stato un cambiamento
Qualcuno l’ha definito teatro popolare, sembra un cantastorie ottocentesco con qualcosa del cunto siciliano, forse troverai tu una definizione. Con Calenda pensavamo al “melodramma civile” oppure teatro di narrazione con ambientazione ottocentesca dai costumi alle musiche.
Certo l’argomento resta insolito, un outsider della storia, almeno di quella scritta dai potenti
Ma in realtà l’argomento è universale, è un uomo che si mette in cammino alla ricerca di Dio ed è quello che accade anche ad alcune persone magari ad un certo punto della loro vita. Il Lazzaretti può essere questo per lo spettatore: una scintilla che si riaccende. Questo è uno spettacolo che pone molti interrogativi sull’esistenza di uomini che io definirei “straordinari”, nel senso che arrivano ad un certo punto della storia, in un determinato momento della storia e hanno una visione altra del mondo. In questo Lazzaretti è stato un precursore perché lui inventa questa nuova comunità, società.
Da alcuni anni sei “più attore” che musicista: tu come ti senti?
Io ormai da sette anni faccio molti più spettacoli che concerti, mi sono conquistato con grande fatica un pubblico che mi segue e ho cercato di proporre sempre delle cose di qualità, cose che potessero stupire il pubblico. E oggi come oggi mi tengo stretta questa conquista, sera dopo sera e cerco di dare sempre il massimo sul palco. I risultati sono arrivati con “Magazzino 18” che ha avuto più di centomila spettatori e duecentodieci repliche. Ma io mi sento sempre un debuttante, ogni sera è sempre come se fosse la prima.
E per quanto riguarda i tuoi progetti futuri?
Intanto questo va avanti fino all’anno prossimo. Sto lavorando ad un progetto con la provincia di Udine sul terremoto del ‘76, già abbiamo fatto un primo evento a Gemona il 15 settembre, però quella è stata un’orazione civile a modo mio, Simone che raccontava da romano che cos’è il terremoto. Abbiamo fatto una ricerca con la giornalista Simona Orlando e abbiamo scritto insieme questo testo e faremo qualche replica e poi chissà, magari lo trasformeremo in una versione teatrale. Ma non so se sarà questo il mio prossimo lavoro, io vorrei fare qualcosa di comico, un esperimento.