
D: Michele, Otto Marvuglia è il prototipo dell’illusionista e grande demiurgo della scena: un ruolo che forse ogni attore maturo vorrebbe interpretare. Chi è per te? Quali aspetti ti interessano del personaggio?
R: Non so se il personaggio di Otto Marvuglia de La Grande magia sia un ruolo così ambito dagli attori maturi, forse perché il testo non è fra quelli più conosciuti di Eduardo. Ebbe infatti un inizio un po’ burrascoso, quando debuttò nel 1948. Non fu compreso dai contemporanei, perché lontano dai suoi primi testi, e andò male.
In realtà, interpretare il Professore è intrigante, per ciò che significa l’arte dell’attore sulla scena. Lo vedo come un attore mancato e, tra le righe, anche lui lo dice all’inizio, quando si presenta, parlando del pubblico: il mare che ha davanti spesso viene inteso semplicemente come il pubblico, ma secondo me, lui ne parla, pensando al mondo del teatro e alle occasioni che gli ha negato, perché non c’era posto per lui, come attore. Infatti, si è riconvertito in un tipo diverso di illusionista.
Questo trovo interessante: l’attore è il grande illusionista per antonomasia e l’illusionista invece è un illusionista, per così dire, più ‘pratico’; la differenza è che il primo vive dell’illusione, rimane nell’illusione e il pubblico la sviluppa, facendola sua, mentre l’illusionista presenta l’illusione in forma concreta e fa apparire le cose per davvero.
Poi sono interessanti le sfaccettature umane del personaggio, fuori dal lavoro, come la miseria, i rapporti e l’arte d’arrangiarsi, secondo una duplice valenza: sulla scena e nella vita. Tutti i personaggi di Eduardo lo sanno e anche Otto Marvuglia.
D: Nello spettacolo fai largo uso del linguaggio non verbale, animando lo spazio con gesti, cinguettii e campanelli che fanno apparire magicamente oggetti e personaggi. Io ti conosco anche come musicista. Quanto influenza il tuo approccio al teatro e alla recitazione, la musica?
R: Io nasco come musicista e non come attore: non ero un bambino di quelli che, da grande, volevano diventare attori a tutti i costi. Anzi, ero un bambino che suonava e poi mi sono trovato a fare l’attore, passando attraverso la musica. La musica mi ha sempre accompagnato e vi ho trovato dentro buona parte delle ragioni anche per essere attore. Vivo i testi come partiture e poi lavoro con la musica fattivamente, in spettacoli musicali, operette o lavori come Façade (che è stato accompagnato da un ottetto del Conservatorio di Torino). È sempre stato un privilegio poterne fare uso e, appena possibile, ci lavoro, anche recitando: le parole si suonano, in qualche modo.
Qui mi si è presentata l’occasione di lavorare sul suono degli uccellini, già presenti all’interno della trama, un po’ per caso e un po’ per scelta. Poi ci siamo chiesti se continuare a lavorare sulla mia conduzione musicale ornitologica o se mettere ogni tanto dei contributi registrati. Per cui è diventata una piccola partitura tutta mia, all’interno del testo: non solo è un modo per rendere vivi i canarini che abitano la scena, imprigionati all’interno delle gabbiette, ma intorno a essi si sono create altre accensioni metaforiche e simboliche, già presenti nel testo di Eduardo.
D: Il testo abbonda di didascalie. Come ve ne siete serviti? Quanto avete voluto seguirle o liberarvene? Quanto vi hanno ispirato?
R: Vista la complessità dell’allestimento, direi che ci sono state utili ma non indispensabili. Sono state un aiuto ma non un obbligo, anche perché la scena dello spettacolo, intesa come scenografia, non è quella raccontata nel testo: ha una sua essenza, una sua scheletricità. Direi che il testo è anti-naturalista, dal punto di vista del contesto. Non sempre è richiesto un contesto verosimile: non c’è l’albergo, non c’è la casa, ci sono alcuni segni che ci conducono, insieme a ciò che si dice, nei luoghi e anche questo è un modo di interpretare il rapporto fra il testo e la scena, in favore dell’illusione.

D: Sappiamo che nella prima edizione del 1948, Eduardo interpretò il ruolo di Calogero Di Spelta e affidò ad Amedeo Girard quello di Marvuglia, poi nelle edizioni successive e, in particolare in quella televisiva degli anni ’50 (presente nelle Teche RAI), il ruolo di Calogero fu affidato a Giancarlo Sbragia, quindi furono invertiti i ruoli. Come spieghi questa scelta? Perché Eduardo scrive i due ruoli e poi in momenti diversi sceglie di interpretarli entrambi?
R: Credo che, quando scrisse la favola nera o tragicommedia de La Grande magia, che dir si voglia, lui fosse convinto di fare Di Spelta, perché ne è il protagonista.
La scrive, si ‘sbriciola’ nei primi due atti nel personaggio e poi gli regala il monologo finale nel terzo, un monologo degno di un primo attore; tra l’altro in modo strano, perché i primi due atti sono completamente in mano a Marvuglia, che alla fine diventa il contraltare di Di Spelta: un coprotagonista.
Poi, probabilmente, si rese conto che Marvuglia è il vero protagonista nell’immaginario collettivo del mondo eduardiano: era come se avesse tradito se stesso e il pubblico, in una sola volta, e quindi è tornato a quel ruolo. Attraverso la sua interpretazione, il personaggio sarebbe diventato qualcosa di più alto, di sublime e forse ha voluto concedere di nuovo al pubblico una prova d’attore fra quelle più attese.
D: Mi stai dando delle prospettive interessanti, perché io avrei immaginato che lui avesse scritto Otto Marvuglia per sé e invece tu mi dici che il protagonista è Calogero Di Spelta e non il Professore.
R: Penso di sì perché, se tu devi raccontare la storia non dici: “E’ la storia di un illusionista”, ma: “E’ la storia di un uomo che ha dei problemi con la moglie, un borghese del tempo, un uomo geloso e poi un giorno arriva Marvuglia che determina il seguito della vicenda”, ma non è la storia di un illusionista, è la storia di Di Spelta.
D: Come vedresti tu la possibilità di interpretare Calogero di Spelta in futuro, anche in continuità con questa esperienza, seguendo l’idea che aveva avuto Eduardo di interpretare il ruolo Di Spelta in alternanza con quello di Marvuglia, affidandolo, allora, a Ruggero Ruggeri?
R: Farei volentieri Calogero: adesso che l’ho conosciuto meglio, ho una serie di idee in testa che potrebbero essere utili al personaggio. Poi, pensando che è il protagonista, sarei avvantaggiato nell’interpretarlo, perché cercherei il modo di arrivare al botto finale, attraverso i due atti preparatori, mischiando forse Calogero con Marvuglia nell’ultimo atto, perché è un po’ quello che già succede.
D: In che senso? Vuoi spiegarlo?
R: Nel senso che Calogero proprio nell’atto finale, che per me è sempre a metà tra Ionesco e Bernhard (e mi porta molto vicino al teatro contemporaneo), in qualche modo diventa Marvuglia, accogliendone totalmente pensieri e azioni. Avendolo interpretato, potrei mettergli a disposizione tutto quello che so di lui.

D: Eduardo è un modello frequentabile non solo attraverso i testi, ma anche grazie al patrimonio di registrazioni che ci ha lasciato, in particolare la ripresa televisiva di questa pièce. Come hai lavorato su questo personaggio, cercando di liberarti del modello eduardiano?
R: È semplice: non l’ho mai guardato, se no sarebbe stato un riferimento automatico e quasi obbligatorio. So che non mi avrebbe aiutato, anzi.
D: Come ci si avvicina quindi al teatro di un intellettuale umanista come Eduardo?
R: Per me è stata la prima volta, ma proprio in virtù del fatto che non volevo avere nessun tipo di aiuto, ho cercato di saperne il meno possibile, oltre a ciò che già conoscevo. Non mi sono avvicinato, cercando di sapere: mi sembrava più efficace il contrario per entrare dentro il testo, anche perché c’entra poco con il mondo eduardiano.
La produzione del Teatro Bellini di Napoli, con la regia di Gabriele Russo, ha fatto una scommessa sui due attori principali (Natalino Balasso, oltre a me) che non sono, diciamo, quelli che chiunque a Napoli avrebbe ingaggiato come protagonisti della storia. Ho preferito quindi vivere la possibilità dell’azzardo: non mi sono mai sentito in dovere di portare a termine un compito, ma piuttosto di essere a disposizione, per interpretare Eduardo come avrei fatto con Bernhard, Koltès o Sofocle.
D: Che cosa può insegnare oggi alle nuove generazioni Eduardo? Sul piano formale, professionale o dei temi delle sue opere?
R: Una cosa su tutte, è che ha avuto il coraggio di dire qualche cosa che andava contro le aspettative dei contemporanei. Per uno come lui, baciato dal genio della scrittura, a un certo punto le sue idee si sono rivelate in tutto il loro valore, nonostante lui all’inizio non fosse stato capito. Anzi, era stato preso male il suo tentativo di andare in un’altra direzione. Ecco, questo coraggio è qualcosa di cui tenere conto, sia nella scrittura sia nella messa in scena, anche perché il teatro italiano sta sprofondando in se stesso. Non ci sono registi coraggiosi.
D: Allora, non ci resta che la curiosità di vederti un giorno nei panni di Calogero, di cui Marvuglia è l’alter ego …