Non ci si improvvisa improvvisatori…

Appena si entra nel foyer del teatro San Salvatore a Bologna, si può gironzolare attorno a sei quaderni appoggiati sopra un tavolino, sulla cui copertina c’è scritto la tematica delle riflessioni e dei ricordi che il pubblico può scriverci dentro, come ad esempio “un personaggio della tua famiglia che non scorderai mai”, oppure “una cosa che ti fa paura”. Questo innesca un interessante interazione con il pubblico: da un lato la curiosità di leggere cosa è stato scritto in precedenza, scorrendo a ritroso le performance precedenti della compagnia e quindi di “immaginarsi” come potrebbero essere andati quelli spettacoli, dall’altra la voglia di raccontarsi, di contribuire, di vedere un pezzo dei nostri ricordi reinterpretato sulla scena. Infatti il materiale che il pubblico scrive nei quaderni sarà poi utilizzato dagli attori per creare lo spettacolo di improvvisazione a cui assisteremo di lì a poco.

Questo senza dubbio è un punto di forza della performance di improvvisazione che non si potrà mai vedere in uno spettacolo teatrale “normale”: ciò ha portato numerosi attori e registi a cercare contaminazioni e connessioni tra l’improvvisazione e le rappresentazioni classiche, dando vita negli anni a nuove forme di teatro, come ad esempio il Leaving Theatre. D’altra parte le due impostazioni teatrali sono molto diverse: nel teatro si lavora sul personaggio, sulle sue profondità, si punta alla qualità recitativa cercando di rievocare i suoi sentimenti, le sue emozioni, la sua verità; nell’improvvisazione il personaggio arriva mentre siamo già in scena, quindi l’attore di esperienza va a ripescare situazioni simili ma ovviamente non ha il tempo di approfondirle. Questo si traduce spesso, ma non sempre, in una minore componente drammatica dell’improvvisazione, in una maggiore ricerca della comicità, in più errori di accavallamento di battute e in un livello recitativo più basso rispetto al teatro, anche dovuto al fatto che si ricorre a mimare gli oggetti che non sono stati inseriti nella scenografia. Di contro, oltre al punto a favore citato in precedenza, si ha un’imprevedibilità della trama, ogni spettacolo è una cosa a sé e molto diverso dagli altri, e la possibilità che ogni attore ha di sprigionare la propria fantasia, la propria vena comica, non essendo imprigionato in una parte precostituita.

Tornando allo spettacolo “Quaderni di famiglia”, tre sedie, un pianoforte sulla destra, un albero di legno sullo sfondo, e soprattutto sei quaderni pieni di frasi e ricordi di vita, questo è tutto ciò che serve agli attori per la performance. Alfredo Cavazzoni, Gila Manetti e Andrea Mitri entrano in scena vestiti di nero e iniziano a sfogliare i quaderni. Una volta individuate le frasi e i ricordi più caratteristici iniziano a improvvisare, creando tre storie che si avvicendano sulla scena. In certi punti si annusa un certo “canovaccio”, cioè un’impalcatura comune a tutte le performance sulla quale poi si vanno a costruire le situazioni di volta in volta improvvisate, come ad esempio la scelta di essere tre fratelli, pur non avendone la certezza fino in fondo. In altre il “canovaccio” invece è più evidente, come nella ricostruzione dell’infanzia dei tre fratelli mediante un tema improvvisato da quanto scritto nei quaderni o nell’incontro televisivo fra il presentatore e due scrittori di libri. Paradossalmente queste parti, il cui schema è preparato in precedenza, risultano le meno riuscite, anzi in certi punti abbastanza vuote: il pubblico, già “caldo”, ride ugualmente ma più per gli scimmiottamenti e i versi esagerati che per le battute in sè. Nel resto dello spettacolo invece è molto interessante vedere come, quando un attore inizia a creare una storia diversa da quella fino a lì percorsa, tutti gli altri abbiano un momento di empasse e poi cerchino di riallinearsi, ma senza andar dietro come pecore, al nuovo filone. Ed è altrettanto bello vedere come ci vuole veramente un attimo per ricostruire la nuova situazione, come gli attori cambino impostazione fisica e tono nel giro di pochi secondi.

Si potrebbe pensare che le vicende ricostruite in una performance di improvvisazione risultino di minore complessità di trama rispetto a chi ha tutto il tempo per scrivere il testo seduto a tavolino, lontano dal pressing del pubblico che ti guarda: non è così, le storie narrate sono ben strutturate, non si contraddicono e risultano molto godibili.

Ilaria Innocenti, che fino a ora è rimasta in disparte dietro il pianoforte senza proferir parola, nel finale impreziosisce la performance con una canzone improvvisata sulla base degli avvenimenti fino a qui visti, strappando un meritato applauso. I tre attori sono molto bravi, si mettono in difficoltà, scherzano, giocano, hanno pause giuste e si accavallano poco (uno dei rischi maggiori di queste performance), ma soprattutto spaziano.

Il pubblico, sicuramente avvezzo a questo tipo di performance e quindi forse un po’ “di parte”, è stato da subito coinvolto dai quaderni, si è poi riconosciuto nelle storie narrate e ha mostrato il suo gradimento, anche con applausi a scena aperta.

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