La locandiera, pentole, cappotti ed altri elisir

La rivoluzionaria Locandiera di Antonio Latella al Teatro Mercadante di Napoli

La locandiera - © ph Gianluca Pantaleo

La più morale, la più utile, la più istruttiva: così lo stesso Carlo Goldoni, nelle note de L’autore a chi legge, parla de La locandiera – in questi giorni in scena al Teatro Mercadante di Napoli per la regia di Antonio Latella – di fatto una delle opere più significative del teatro comico settecentesco italiano e fondamentale passaggio in quel percorso di riforma del teatro che Goldoni stesso perseguiva e che da tanti, all’epoca, veniva auspicato: non poteva attuarsi, questa sacrosanta rivoluzione copernicana, che attraverso il personaggio straordinario di una donna, lo stesso Autore riferisce di non aver dipinto altrove una donna più lusinghiera, più pericolosa di questa. Dunque l’eccezionalità di questa femminilità rivoluzionaria era ben presente a Goldoni, consapevole di aver portato sulla scena, per la prima volta, sicuramente in Italia, il prototipo di donna moderna, libera, autodeterminata, indipendente, astuta che, pur pienamente avvertita del proprio fascino e del proprio potere sugli uomini, si sottrae alle convenzioni sociali dell’epoca, rifiutando il ruolo passivo e sottomesso generalmente riservato alle donne.

Ci arrivò, Goldoni, a delineare i tratti di un personaggio così complesso, sul finire del suo contratto quinquennale con la compagnia Medelbach al Teatro di Sant’Angelo di Venezia: in quei fatidici cinque anni Goldoni scrive una quarantina di commedie venezianissime, un terzo della sua intera produzione teatrale e questo già può darci un’idea dell’importanza di quegli anni così densi. Ma sono soprattutto anni cruciali per la storia del suo teatro – e del teatro italiano in generale – perché in quel modo di metter sulla scena un universo variegato di creature e personaggi, Goldoni riuscì, come mai prima d’allora e con un’energia mai più ritrovata, nel miracolo di far coincidere perfettamente ideologia e drammaturgia, costruendo un teatro che in pieno, a partire dalla forma, riuscisse ad essere espressione degli ideali e dei valori di un determinato gruppo sociale, il ceto borghese-mercantile veneziano (ma non solo).

Così, ai vecchi valori della tradizione, incarnati nella fedeltà a Dio, alla Dama e al Principe, tipici della cavalleria nobile, ne subentrano altri, che a una ben diversa Weltanschauung rispondevano, basata sull’economia e sul gioco, che poi si incarnano nel lavoro – per guadagnar denaro – e nell’avventura – per procurar piacere: la ricerca del profitto diventa legge che governa il mondo, la ricerca del piacere principio su cui si fonda il teatro, che di quel mondo è specchio e finzione.

E così, di commedia in commedia, porta avanti un discorso sul nuovo che sta arrivando, anzi, è già arrivato, probabilmente manca soltanto, a quell’universo per certi versi ancora acerbo, una qualche più compiuta consapevolezza che magari il gioco teatrale, col suo eterno alludere, mimare, fingere, potrebbe senz’altro contribuire a suscitare e formare, perfino in quella Venezia che, ormai del tutto passivamente e stancamente, cerca invece di far sopravvivere valori ormai vecchi e vuoti contrabbandandoli per eterni. Così, sul finire dell’anno 1753, mette sulla scena del Sant’Angelo La locandiera, storia di una donna che gestisce una locanda – significativamente a Firenze, non a Venezia – sul lontano modello di quella Serva padrona con cui Pergolesi, nella Ville Lumière, aveva avuto enorme successo e risonanza proprio l’anno prima, mescolando sapientemente umorismo e tenerezza.

Prende allora la Corallina della Serva amorosa e della Castalda, Maddalena Marliani Raffi, giovane veneziana molto bella, molto amabile, piena di vivacità e ingegno, e la riveste dei panni di Mirandolina, non più maschera dietro cui rifugiare i nostri desideri e le nostre paure, ma donna in cui trasfondere umanità e grazia: molto, probabilmente, deve, il carattere del personaggio, a questa prima interprete, in quell’età dell’oro in cui ancora gli attori erano soliti improvvisare e il dramma o la commedia prendeva forma sul palcoscenico, la grande arte dell’Autore consistendo proprio nel saper valorizzare dalle singole personalità dei protagonisti.

La locandiera © Gianluca Pantaleo

E attorno a Mirandolina – nomen omen – crea un mondo a sua immagine e somiglianza, metafora e prolungamento della stessa protagonista, locanda che è, insieme, lavoro e teatro, facendo coincidere in maniera perfetta profitto e piacere, nel gioco sottile degli inganni e degli specchi, di precetti e d’indiscrezione, di rischio e riscontro. La locanda che (ri)crea Latella, con il contributo determinante della drammaturgia di Linda Dalisi e della scena disegnata da Annelisa Zaccheria, è estremamente stilizzata, lasciando ai movimenti degli attori il compito di delineare muri e porte, corridoi e finestre: sul fondo c’è un grande pannello di legno chiaro con apposte, in modo disordinato e casuale, cornici modanate e fregi, elementi che in qualche modo richiamano, senza tuttavia citarlo, il rococò illuminista della composizione dell’opera, ma che, combinati in quel modo e tutti d’identica fattura seriale, danno piuttosto l’idea d’esser bella mostra di elementi di boiserie prêt-à-porter come puoi trovare, oggi, in un qualsiasi centro commerciale, di prepotenza entrando, quindi, nella nostra contemporaneità.

Un vecchio tavolo di legno senza tempo è l’unico vero arredo, sulla sinistra di chi guarda, insieme ad alcune sedie di plastica e metallo, sulla destra una moderna cucina d’acciaio a induzione su cui troneggia, placida e quasi sensuale, una rossa pentola smaltata, all’estrema sinistra una predella svolge varie funzioni, soprattutto di snodo e sottolineatura dei movimenti di scena. In quest’unico ambiente – illuminato da luci al neon che fanno bella mostra di sé in alto, anch’esse partecipi della vicenda, visto che in taluni momenti friggono ronzando, quasi sottolineando momenti di cortocircuito – si svolge tutta l’azione; un’estrema fissità scenica, dunque, che, insieme alla durata dello spettacolo, la commedia, cioè, nella sua pressoché intaccata integrità e alla lingua, lasciata anch’essa identica a quella di Goldoni, senza quindi concessione alcuna a una possibile facile fruizione da parte del medio spettatore, costituisce un vero e proprio miracolo visto il successo che va raccogliendo ormai da tempo e di cui anche la serata di ieri sera è testimonianza, la sala era piena in ogni ordine di posti, come direbbero i cronisti seri.

Alla complessità della pièce, già come abbiamo detto prevista dall’Autore, Latella e Dalisi aggiungono, senza negare i precedenti, ulteriori punti di vista, arricchendo la lettura di questo capolavoro in modo che sia facile, per chi guarda, anche attraverso un accorto utilizzo di citazioni alla contemporaneità filmica e televisiva, identificare al primo colpo d’occhio i protagonisti inserendoli in un continuum con la loro esperienza vissuta, riconoscendoli e svelandoli nella loro intima essenza. Si apre allora, per lo spettatore in platea, la possibilità di esplorare diversi piani, una lettura a strati che facilmente ci consente di cogliere richiami con la nostra contemporaneità, tracce vistose che ci riportano, sorprendentemente, alle nostre vissute esperienze: in tal modo è, per esempio, più semplice, per noi, cogliere immediatamente la sfida parallela che Goldoni fa svolgere sulla scena tra il vecchio modo di far teatro – quelle delle maschere – rappresentato dalle due commedianti e il nuovo modo di fingere – quello di Mirandolina – perdente il primo, vincente il secondo, e oggi, tra un certo modo di intendere l’arte dello spettacolo, tra il puro intrattenimento – cinematografico o televisivo – mettendone in evidenza limiti e intenti e il teatro e il cinema d’autore, diversissimi modi d’affrontare e risolvere la finzione scenica. O, se volete, su un piano più strettamente politico, modi e maniere di una certa vecchia politica sperperona e intrallazziera, contrapposta a quella dei nuovi politici spacconi e arroganti o, anche, a quella di una politica-spettacolo da parte di vecchi e nuovi istrioni.

La locandiera © Gianluca Pantaleo

In questo gioco a rimpiattino tra finzione e realtà, tra antico e moderno, tra realtà e fantasia, andiamo a scoprire che molta dell’arte seduttiva di Mirandolina nei confronti del misogino Cavaliere si basa sulla cucina e sulla preparazione di cibi, di cui ci viene fatto sentire perfino in sala l’odore, un itinerario e un percorso che parte da molto lontano, dai vecchi filtri ed elisir d’amore dell’antica tradizione di un medioevo rivussuto e rinvigorito dal Secolo romantico, per arrivare all’ossessiva presenza dell’idea di cibo e di chef a tutte l’ore nelle nostre tv, il gioco degli specchi è neanche tanto sottile, il teatro e la vita si confondono, i piani si intersecano, la tensione sale fino allo svenimento di Mirandolina, la deposizione sul tavolo, un’armonica a bocca e una chitarra elettrica intonano, come fosse una ninnananna, una soffusa versione di She was, una scena – e una situazione – che molto s’addice a Mirandolina – she was a tiger and a tiger in the wild is not tied to anyone, the day I found her on the road I gave her water and a rose – ma che pure molto mi ha ricordato un lavoro di Latella e Dalisi di alcuni anni fa, Aminta, da Torquato Tasso: desiderio, amore, desiderio dell’amore, cupa e immedicabile ferita, che Latella porta alla luce come il chirurgo l’ascesso purulento perché sia finalmente sanato, consumato dalla sua stessa incommensurabile forza, che si fa istanza etica di ricapitolazione della propria umanità, e che si (ri)frange, nei vari personaggi, declinandosi di volta in volta in ansia e paura, gioia ed esultanza, ferocia e prudenza, fragilità e violenza.

Discende, il Marchese di Forlimpopoli, d’antica nobiltà, sua la battuta iniziale della commedia, diventata proverbiale: Fra voi e me vi è qualche differenza che lunga la dice sull’imbarazzante alterigia del personaggio, ormai spiantato e costretto – così insinua il Conte – a vendersi il titolo per sopravvivere. Il suo patrimonio è stato sperperato dal padre e poi da lui stesso, quel che è certo è che è uno scroccone di prima grandezza, con chiunque e in qualsiasi circostanza.

Veste un maglione jacquard (tutti i costumi, disegnati con intenzione, sono di Graziella Pepe) o, in alternativa un doppio petto grigio un po’ liso, eleganza sobria un po’ fané ricordo, in tutta evidenza, di tempi migliori, la ricerca dell’interprete Giovanni Franzoni lo rende meno comico del solito, donandogli, oltre a un’insolita pensosità, un che d’eleganza fascinosa che ha sempre il fuori moda, se portato bene e con stile: d’altra parte ne faceva, l’Autore, il rappresentante più eloquente sia della passata piccola nobiltà ormai decaduta tra debiti e sotterfugi, sia, più incisivamente, del modo ormai superato di far teatro, una sorta di vecchio capocomico disposto alla pensione e ai ricordi; fuor di metafora teatrale è, come sembra ovvio, esponente di una certa classe politica che ha basato il proprio consenso sul vivere al di sopra dei propri mezzi, sperando che durasse per sempre e che ora campa solo reggendosi sulle proprie fanfaronate, spacciate per sapienti conoscenze e raffinate, pur se parsimoniose, scelte.

Francesco Manetti rende il Conte d’Albafiorita con la giusta dose di sicumera cinica che gli deriva dall’esser ricco e nobile, se pure di Contea comprata nello stesso momento in cui  il Marchese ha venduto il Marchesato: in fondo è l’altra faccia della stessa medaglia, espressione della stessa decadenza che investe quella civiltà che fu splendida in passato e che ora vivacchia consentendo agli ultimi rampolli d’arricchirsi o impoverirsi facendo finta che tutto sia uguale a prima, mentre un giorno dopo l’altro il tempo se ne va e l’avvenire è ormai quasi passato. E tuttavia questo rampante esemplare di una classe sociale in attesa, vestito del suo griffato abito sportivo dimostra che, nonostante tutto, qualcuno continua a vedere ancora un futuro avanti a sé, vivendo con estrema aggressività e spacconeria la certezza di conquistare il mondo con i suoi soldi, probabilmente di dubbia provenienza.

La locandiera © Gianluca Pantaleo

Ortensia e Dejanira cercano di nascondere la loro vera identità facendosi passare per gran Dame ma in fondo Goldoni con loro non ha dovuto utilizzare metafore, simboli, immagini: esse sono quel che sono, attrici della tradizionale commedia dell’arte che non sanno recitare la loro parte non avendo né la cultura né la preparazione professionale per farlo. Così Marta Cortellazzo Wiel dona alla sua Ortensia una esuberanza che cerca invano di nascondere insicurezze: personaggio in gran voga oggi, soprattutto in televisione, si esibisce pure in quella che passa, comunemente, per una gran prova d’attrice, l’orgasmo simulato al tavolo d’un ristorante – citazione abusata di Harry ti presento Sally; Marta Pizzigallo fa tessere obliqui inganni alla sua Dejanira, che tuttavia ha la cattiva abitudine, propria dei pessimi commedianti, di ridere delle proprie battute e, di fronte ai gonzi che le credono Dame altolocate, proprio non riesce a trattenersi: in entrambi i casi vanno incontro a catastrofici esiti, perfino quando, gettata la maschera, tentano l’irta strada della sincerità, non sapendo tuttavia giocarsi con intelligenza nemmeno questa carta, riflettendo nei loro superficiali comportamenti tanta chiacchiera da bar dietro cui nascondere, tra una battuta e una volgarità, il vuoto pneumatico di tanto assoluto dilettantismo che tenta la strada del millantato credito, fingendo grandi orizzonti e superiori fini.

Il servo Fabrizio ha carne e sangue di Valentino Villa, che sceglie, per il suo personaggio, di giocare di rimessa, sapendo di essere stato predestinato ad un ruolo ben più importante di quello che riveste, sia nell’economia della commedia sia in quella del mondo che si va a rappresentare: il matrimonio con Mirandolina è per lui una decorosa sistemazione, ma – misteri dell’amore e del denaro – è forse l’unico a non mostrare di essere innamorato di lei. Al contrario dell’altro servo, quello del Cavaliere, interpretato da Gabriele Pestilli che s’innamora come tutti della locandiera, pur condividendo con Fabrizio la sua condizione, che poi era la quintessenza della società veneziana, la mercanzia più abbondante, tanto che il Governo della Serenissima li esportava pure; gioca, nel caso nostro, diremmo per fedeltà al suo padrone – che tuttavia vive con qualche significativa riserva, facendo ben pesare i suoi servigi, quasi con risentimento – un ruolo poeticamente paraninfico, nella citata scena, che Latella rende d’inquietante bellezza, dello svenimento di Mirandolina.

Il Cavaliere di Ripafratta possiede molte ottime doti, è ricco ma non attaccato al suo denaro, è generoso, anzi, e intelligente, riesce ben a capire gli altri, Ludovico Fededegni ci appare così rivestito del suo ampio cappotto cammello come di una morbida corazza ma anche tenero riparo estremo da una qualche figura donnesca perduta, fonte di sicurezza, certo, ma pure d’indicibile sofferta ostilità verso ogni femminilità che intervenga dall’esterno. Quel cappotto è un po’ icona di una certa mascolinità da bello e perduto, tra il Marlon Brando di Ultimo tango e l’Alain Delon di Ultima notte di quiete, immagine e memoria che gli infradito ai piedi nel mentre smentiscono confermano contraddittoriamente quasi per antifrasi.

Ma quello stesso cappotto è, tuttavia, in fondo – e questo è ciò che più ci importa – l’enzima che catalizza la reazione chimica con la pentola di Mirandolina – entrambi oggetti feticcio su cui le tensioni esterne si scaricano e si neutralizzano – facendo sì che i due personaggi possano riscoprirsi metaforicamente nudi, non solo d’ogni vestito e d’ogni orpello ma pure d’ogni impedimento che possa ostacolare il libero incontro tra due persone: significativamente quando finalmente comprende d’esser innamorato quel cappotto non gli servirà più, lo userà, nella scena centrale dello svenimento, come coperta con cui riscaldare Mirandolina esanime sul tavolo.

La locandiera © Gianluca Pantaleo

Mirandolina può essere vista, classicamente, come il prototipo della donna moderna, libera e autodeterminata, che non ha bisogno del matrimonio per affermarsi nella società: eppure, anche nel recente passato, La locandiera portava con sé un che di lezioso e di inevitabilmente polveroso, pur nella vivacità che ha sempre caratterizzato il personaggio. Bene, scordate ogni Mirandolina abbiate visto in passato, Sonia Bergamasco ne fa una donna intelligente, autonoma, che pur essendo imprenditrice di successo non dimentica le sue personali fragilità, di cui ogni essere umano dovrebbe serbare coscienza: se il Cavaliere di Ripafratta ha riferimenti cinematografici in uomini d’indubbio allure, lei, così adorabile e forte e tenera insieme, nella sua lunga camicia candida che lascia scoperte gambe e piedi di certo ci ricorda certe icone cinematografiche, da Marilyn Monroe a Monica Vitti a Audrey Hepburn, ma anche Pina Bausch di Café Müller citato da Latella nelle note di regia, non ci stupisce più di tanto vederla tentare nell’aria passi di danza, in questo facilitata dai piedi nudi, saltando sulle sedie.

Quando però decide di sedurre il Cavaliere calza strani stivaletti con doppio tacco, anche in punta, probabilmente perché la sfida è impegnativa e, in fondo, innaturale: li toglierà, quegli stivaletti, platealmente al centro della scena, nel corso del finale, quando ormai avranno esaurito il loro compito, tornando, fuor di metafora, con i piedi per terra. Alla fine, in quel terz’atto di cui Goldoni denunciava a se stesso l’irresolutezza sul da farsi, Mirandolina, risvegliatasi dallo svenimento e dal fiammeggiare delle emozioni, corroborate anche dal Borgogna, avvolge il cappotto del Cavaliere come un tesoro – supponiamo che, nei limiti della convenienza e dell’onestà, lo terrà, d’ora in poi, come una reliquia d’un remoto possibile amore – lo nasconde prima in cucina, poi lo tiene, così avvolto, in grembo e, mentre gli avventori litigano fra loro, si viene a sedere, spalle al pubblico, su uno sgabello che fin dall’inizio è stato sul proscenio: simile ad un regista teatrale, assisterà, come noi, allo sgangherato diverbio tra i personaggi che utilizzeranno i bastoncini di uno shangai(!) come fossero spade, ancora una volta, forse l’ultima, il teatro diventa specchio della vita ma pure, supremamente, finzione, allegoria, grottesca imitazione.

Parla, Mirandolina, annunciando fra le lacrime che sposerà Fabrizio, come da copione, aderendo ad una volontà esterna, l’ambiguo finale non è stato mai così contraddittorio, mai così malinconico, l’invettiva del Cavaliere – maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni – mai così vera e poco invitante al sorriso, lasciando che le luci si spengano piano quando cominciano gli applausi. Mentre mi avvio all’uscita per immergermi nel principio della notte napoletana, soffrendo il primo rabbrividire di questo novembre, inevitabilmente mi pongo le stesse, eterne domande su questa ragazzetta veneziana – fiorentina, pardon – che mi faccio da sempre, fin da quando la conosco: era vero o falso il suo venir meno? Per dirla col Cavaliere, sono dunque finte le lagrime delle donne, sono mendaci gli svenimenti? Chi può saperlo?

Certo Latella e Dalisi un po’ mostrano di crederci, a quelle lagrime e a quegli svenimenti, potrebbe, chissà, esser caduta nella sua stessa trappola, come Venere che, ferita per sbaglio dalla freccia del figlio Cupido, s’innamora di Adone, confermando addirittura con un bacio la sua ferita. E, se così è, o così sembra essere, perché non sposa il suo Adone, alla fine, visto che anche lui pare aver finalmente trovato il coraggio di uscire dal guscio coriaceo che si era costruita tutt’attorno? Certo, lo so, conosco le risposte, forse hanno ragione quelli che pensano Fabrizio esser la locanda stessa, a quella appartenere come la biancheria, le stoviglie, le pentole, scegliere lui è in fondo rassicurante e comodo, e in più si fa la volontà di papà, obbedendo alla forza della tradizione. O magari la risposta è, apparentemente, tutt’al contrario, l’insospetto inizio di una rivoluzione, Latella arriva a dire che quella di Mirandolina è scelta politica, nobilita la servitù, la Locanda diventa il luogo dove riscrivere tutta la storia (teatrale e non) del Paese, in un remoto inizio di lotta di classe.

E certo son portato a credere anch’io che di rivoluzione si tratti e che dietro quella scelta così apparentemente semplice e disarmante, dietro il diaframma delle più meno sottili schermaglie, del detto e non detto, nascosto dal linguaggio ancora cortese e dal gioco incrociato degli specchi e dei mille strati sotto cui si nasconde la verità, sotto il velame de li versi strani, altro si celi: forse, chissà, la risposta è altrove, a volte è saggio scegliere strade che i nostri perfetti navigatori ignorano del tutto, magari preferire quell’uomo solido, modesto e sobrio, ben più misero di Conti, Marchesi e Cavalieri, è di certo più vero, più appropriato, più sincero. E Mirandolina ha fatto, col cuore, piangendo, ancora una volta la scelta più giusta. Forse.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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la-locandiera-pentole-cappotti-ed-altri-elisirLa locandiera <br>di Carlo Goldoni <br> regia Antonio Latella <br> con Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, <br> Francesco Manetti, Annibale Pavone, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo <br> dramaturgia Linda Dalisi <br> scene Annelisa Zaccheria <br> costumi Graziella Pepe <br> musiche e suono Franco Visioli <br> luci Simone De Angelis <br> produzione Teatro Stabile dell’Umbria <br> Durata: due ore e trenta minuti (compreso intervallo) <br> In scena dal 12 al 17 novembre 2024 <br> Napoli, Teatro Mercadante, 12 novembre 2024