Vangelo e rivoluzione: la Rumba di Celestini con San Francesco

Lo spettacolo del drammaturgo romano chiude il palinsesto teatrale di Romaeuropa Festival 2023

Ascanio Celestini in Rumba
Ascanio Celestini in Rumba ph Cosimo Trimboli

In principio fu Laika, la storia di un povero Cristo immerso nella quotidianità di un quartiere di periferia dei nostri giorni. Poi fu la volta di Pueblo e di bar, supermercati e parcheggi abitati da gente dimenticata da Dio. Oggi è San Francesco redivivo che chiacchiera con baraccati, zingari e barboni. Ascanio Celestini conclude, con Rumba, la trilogia iniziata nel 2015, portando in scena un omaggio al «poverello» di Assisi, nell’ottavo centenario del Presepe di Greccio e della Regola bollata francescana.

Con piglio pasoliniano e locuzione irrefrenabile, accompagnato ancora una volta dalla fisarmonica di Gianluca Casadei, Celestini s’interroga sui massimi sistemi – «quante sono le stelle nel cielo?» – e sulle cose infime, sui disperati che nessuno degna di uno sguardo, inghiottiti dal fango e dalla miseria. Analfabeti che muoiono nei cessi di un bar dopo una giornata di fatiche, disoccupati, immigrati e carnefici prendono forma grazie ad una narrazione monologica che alterna una fenomenologia dell’emarginazione alle vicende del «giullare di Dio», di un folle vestito di stracci che oggi sarebbe malvisto come un tempo.

Ascanio Celestini in Rumba
Ascanio Celestini in Rumba ph Cosimo Trimboli

Dalle case popolari romane si passa quindi alla «mistica laica» di Francesco, al suo spirito fraterno e gioioso, alla purezza e all’esemplarità di chi, per scelta, ha rinunciato a ogni forma di possesso e di dominio. Una forma di «altissima povertà» che espone all’incontro disinteressato con l’estraneo; che eleva ad un rapporto d’amore con le creature tutte: lezioni scandalose incarnate dai vari personaggi presenti nella drammaturgia di Celestini, creature umane che egli stesso nobilita e ama. Del rischio di una trasfigurazione di ideali tanto lodevoli l’attore-autore è ben consapevole, allora come oggi, e fa bene a ricordare le letture revisioniste della dottrina francescana da parte dei suoi primi seguaci, a partire da frate Elia.

In un continuo sovrapporsi tra medioevo e modernità, dove la modernità appare il medioevo e viceversa, la biografia straordinaria di Francesco – raffigurata sul palco con i dipinti di Franco Biagioni – si srotola dalla Porziuncola ad Assisi fino all’incontro col papa in Vaticano, aprendo squarci di vita divorata dal bisogno, ai margini della vita sociale, economica e politica. In questo itinerario tra sommersi e salvati – in cui i salvati non sono altro che sommersi in una società alienata e iper-consumistica – non mancano i temi più frequentati da Celestini e dal dibattito pubblico – le migrazioni, il patriarcato, la scuola – così come un assalto all’ipocrisia borghese, che si culla nella pretesa dell’unicità inimitabile del santo per assistere alle catastrofi dal divano, e perché no fare la guerra col vicino di tanto in tanto. Dei morti nel Mediterraneo poco importa, non sappiamo neanche il loro nome, e «bisogna ricordarsi il nome dei morti, per poterlo seppellire nel cuore dei vivi».

Inevitabile allora si concluda la pièce con la questione delle potenzialità di una prassi politica antitetica a qualsivoglia «filosofia della povertà»; sulle possibilità di incontrare e interagire con questi scarti di umanità; su come far saltare il «campo minato» che li divide dalla fantomatica “civiltà”. Rimane l’interrogativo sull’efficacia di un teatro civile che si rivolge a un pubblico già sensibilizzato a certe tematiche: una platea che non ha la minima intenzione di sporcarsi le mani, e che della rivoluzione di un Francesco «fricchettone» e protosocialista non sa che farsene.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Drammaturgia
Attori
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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