
Una meravigliosa rivisitazione, soluzioni sceniche e registiche che incantano, musica, parole e gesti accomunati dalla drammatica certezza che il sole non uscirà mai. Questo, in sintesi e volendo essere brevi, il giudizio su “Due atti senza vedere”, una nuova produzione di TeatroNovanta, andato in scena allo Spazio Diamante e in concorso per la sezione prosa del Festival InDivenire. Però quest’opera merita, ovviamente, più di qualche parola, se non altro per dimostrare quanto è vera l’affermazione che “si fa teatro se si ha fantasia” e qui ne abbiamo trovata molta.

Lo spettacolo, diretto da Gianluca Merolli (ormai alla sua quarta regia) è presentato come un primo studio, ma può considerarsi a tutti gli effetti un’ opera conclusa; tratta il tema della cecità e del modo di percepire la realtà da parte di chi ha perso la vista ed è basato su due atti unici: “La musica dei ciechi”, del ’28, di Raffaele Viviani ed “Occhiali neri”, del ’45, di Eduardo De Filippo.
Nei panni di Don Ferdinando e di Mario, i protagonisti dei due atti, lo stesso regista, del quale ormai si è detto molto e bene, e sul quale non si è ancora risolto il dilemma se sia più bravo come attore o come regista; questa volta rende omaggio a due grandi classici del teatro e li riporta a nuova luce (è il caso di dirlo) con la sua “napoletanità”, fatta di passione, intelligenza e cultura; in questa nuova avventura è stato affiancato da un gruppo di attori fantastici: una poliedrica Serena Stella,un energico Simone Borrelli, uno strepitoso Giulio Liguori, un sicuro Raffaele Giglio, un sorprendente Angelo Maria Notari e, solo con la sua voce, Pia Lanciotti.

L’atto unico di Viviani narra le vicende artistiche ed esistenziali di un gruppo di musicisti non vedenti che hanno messo su un’orchestrina girovaga e mendicante e vivono una condizione di vita drammatica, in cui miseria ed emarginazione coincidono, in una Napoli “d’ altri tempi”, una Napoli della strada e degli ultimi, impenetrabile, che si materializza in una parete-muro su cui si aprono e chiudono porte e finestre invisibili, ma pur vere e concrete all’occorrenza.
Questo concertino, formato da quattro elementi, è accompagnato da Don Alfonso, cieco anche lui di un occhio, ma comunque assai fortunato rispetto agli altri, che va questuando l’obolo ai rari passanti. Ferdinando, uno dei componenti, ha per moglie Nannina, che è i suoi occhi sul mondo e che egli chiama affettuosamente “mogliettini”; eppure ad un certo punto della vicenda le griderà contro: “T’aggio vista!”, accusandola di una “evidente” infedeltà, questa certezza sembrerebbe una prova chiara e sufficiente alla condanna morale della donna, se non fosse che a fornirla è proprio lui, ovvero un musicista cieco. Ma quello che dice di aver visto gli è stato solo malevolmente riferito da un “ostricaro”. Ferdinando ha visto il tradimento perché gli è stato raccontato e nel suo modo di percepire la realtà ascoltare è vedere, vista e udito vivono un rapporto di sinestesia. Pieno di rabbia, decide di lasciare compagni e “lavoro”, ma sarà proprio Annina a chiarire l’equivoco ed a fargli aprire il cuore alla speranza.

Al centro di questo primo atto sono i temi della diversità, dell’emarginazione e della dignità degli artisti di strada e guidano il pubblico nella riflessione, in un perfetto equilibrio delle parti, in cui sono sapientemente mescolati prosa e musica, momenti di intensa drammaticità con momenti di ironica comicità.
Senza soluzione di continuità la parete-muro si chiude formando un grande angolo di un’altrettanto grande stanza, piena di luce e dove tutto è rigorosamente bianco, persino l’aspirapolvere; siamo in una villa di Torre del Greco (dove è ambientato l’altro atto unico) di proprietà dei fratelli Spelta, Mario e Maria, alla fine dell’estate. Mario, è un cieco benestante, reduce della guerra d’Africa, in cui ha perso la vista, che ha preferito lasciare Napoli, dove non riusciva ad adattarsi alla sua nuova e dolorosa condizione, e si è sottoposto a delle cure dal cui esito potrà dipendere non solo il suo futuro, ma anche la felicità di Assunta, la sua fidanzata. Non riacquisterà la vista e non si unirà alla donna, che presume lo avrebbe sposato solo per pietà; in un drammatico colloquio chiede alla sorella di non darsi pena per lui, la rassicura perché nei propri sogni riesce a vedere il mondo come vuole e come gli piace, giunto alla conclusione che sono le altre persone ad essere “tutte cecate”, sono ciechi che pur vedendo non vedono, ed esprime il suo rifiuto verso il mondo esterno e l’ipocrisia umana: la notte diventa per lui un mondo “altro”, non della privazione, ma della possibilità dell’immaginazione, che riesce ad esaltare i limiti non a deprimerli. Simbolica la scena finale in cui il protagonista aiuta la sorella a dipanare una matassa di lana, quasi a rappresentare il suo voler restare ai margini della vita che continua all’esterno e, più in generale, nel Paese in cui si avverte la piena coscienza dello strappo bellico.
Due atti unici, si è detto, eppure uno complementare all’altro, senza sbalzi, cesure; Merolli avvicina, mostrandone limiti e similitudini, personaggi di due momenti storici diversi che presentano affinità e rende tangibili la percezione del malessere e l’ angoscia che ne deriva, facilitando nello spettatore una sorta di perlustrazione emotiva in quel mondo di visioni ossessive e di solitudini. Don Ferdinando e Mario sono due facce preziose di una stessa medaglia, creature vive e palpitanti, che si rifugiano nella speranza e nell’immaginazione per vincere la disperazione e la rabbia.