Amleto, Ofelia e i brutti sogni

Per la rassegna Shakespeare Shaker, in scena al Castello dell'Acciaiolo di Scandicci una produzione della Compagnia Macelleria Ettore

[rating=4] Se l’opera di Shakespeare più rappresentata al mondo è Macbeth, la più abusata è Amleto. Alcune sue frasi sono divenute di uso comune; suoi brani sono stati sfruttati dalla televisione, la pubblicità, l’arte visiva; e il teschio ha riscosso molto successo – anche ricoperto di brillanti in una famosa versione glam.

La tragedia del Bardo, infatti, chiama, respinge, provoca turbamenti. E Amleto?, della regista e drammaturga Carmen Giordano, è riuscito a evocare tutto questo – pur assomigliando più a un primo studio, che a uno spettacolo compiuto del 2014. La durata è breve, troppo, e il finale sembra ancora in una fase embrionale. Tuttavia, lo spettacolo si rivela attraente anche perché esile, minimale, come drappeggiato da un mantello di silenzi ripetuti, tesi.

Il testo a monte pare reclamare, ancora una volta, nuova, urgente linfa vitale. Qui, l’amore doloroso tra il Principe e Ofelia, si attorciglia con una coppia di amanti – un attore e un’attrice che tentano di provare battute dell’Amleto e di svelarsi, invano, l’uno all’altra. Operazione ben congegnata e sviluppata, soprattutto nella prima parte, dove i due corpi sembrano prede di un labirinto invisibile di parole e gesti.

Sì, tornano alla mente certi capolavori, come le interpretazioni di Danio Manfredini e Leo De Berardinis (il primo ne Il Principe Amleto, il secondo in Totò, Principe di Danimarca). Ma la tormentata fibra emozionale non è impallidita, ed emancipatasi dal testo originale si è prestata a una differente visione, quasi un flash sulla relazione amorosa oggi. Le parole accecanti sono sfociate, senza quasi che lo spettatore se ne accorgesse, nel mare dei comportamenti collettivi – incomprensione reciproca, desiderio, aggressione psicologica. La carnalità si è resa sopruso e la tenerezza dei ricordi d’amore sottrazione di quotidiano, fino alle domande scomode dell’esistenza. “Sappiamo quel che siamo, ma non quel che potremmo essere. Cosa siamo allora?”

I monologhi cardinali, quelli di Amleto e Ofelia, sono stati sussurrati o gridati, con sgomento o infelicità, senza enfatiche declamazioni. Aspetto, questo, che più di ogni altro ha confermato Maura Pettorruso e Stefano Detassis due interpreti più che validi. Che non si fanno sedurre da facili interpretazioni, ma scavano per cercare quel momento di buio che si fa denso e sensoriale.

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