
Assi di legno chiaro, con schegge conficcate fin sul soffitto, a formare colonne come fossero tronchi d’albero appesi. Un enorme tavolo con ruote che esce da una specie di divisorio sempre in legno che si staglia verso il cielo, quasi una maceria sopravvissuta ad un crollo. La scenografia è bella ed un po’ inquietante, e fa da sfondo ai fratelli Karamazov seduti al tavolo che sorseggiano vodka.
“Dio c’è?”, questa è la domanda che si respira in tutto lo spettacolo, e i pareri non possono che essere discordanti fra i vari Karamazov, dato che Aleksej è un novizio, l’unica persona pura e immacolata del tavolo, mentre suo fratello Ivan è un razionale, che rifiuta la religione anche se “non è Dio che non accetto, ma il mondo che ha creato”. A chiudere il quadretto familiare Dmitrij, uomo imprevedibile dalle emozioni forti, scellerate e contrastanti, e il fratellastro Smerdjakov, malato di epilessia, dall’animo gretto e volubile, relegato alla figura di servo. Tutte queste personalità derivano dal padre Fedor Pavlovic, uomo meschino e autocommiserevole, e solo lo Starec, il padre del monastero di Aleksej, coglierà la sua anima trafiggendolo da parte a parte con le sue taglienti parole: “fa il buffone per vergogna”, “non mentite a voi stesso con questi gesti insinceri”.
Nel romanzo, scritto da Dostoevskij e pubblicato a puntate su “il Messaggero russo” a partire dal gennaio 1879, si affiancano molte storie secondarie alla trama principale, tutti i personaggi hanno la loro importanza e le loro avventure, le loro inquietudini e follie. Dmitrij attira a casa sua una ragazza di origini nobili per prestarle dei soldi, col solo scopo di umiliarla, poi se ne invaghisce e la sposa, ma il suo cuore instabile lo farà inseguire Grušenka, donna bellissima che sta ammaliando anche il padre Fedor. La competizione col padre rafforza l’odio che già esiste fra loro, condiviso da buona parte dei fratelli: Smerdjakov perché considerato un illegittimo ed emarginato, Ivan che vede inettitudine e schifo in tutto ciò che lo circonda, e ovviamente il padre non fa eccezione, e lo stesso Aleksej, che, pur nel candore della sua figura, ammette di aver pensato alla morte del genitore come ad un bene. E con tutto questo benefico amore, qualcuno alla fine il padre lo ammazza…
I personaggi messi in scena da Dostoevskij sono cupi, impulsivi e passionali. Sono sempre tesi come corde di un violino, pronti a scattare per niente, ed oscillano fra purezza e peccato, fra caos ed attaccamento alla vita, peculiarità che è valso all’autore la definizione di “artista del caos”. L’unico a sfuggire a questa logica è Aleksej, ma solo perché questo personaggio rappresenta il Messia, il Cristo che salva tutti gli altri uomini con la sua purezza ed il suo perdono. “Basta che sei qui da qualche parte […] è rassicurante che esisti” dice Ivan ad Aleksej, e anche nell’incontro fra quest’ultimo e Grušenka, lei, che vuole sedurlo come ha fatto con tutta la sua famiglia ormai, ne resta invece colpita, perché scorge nei suoi occhi la pietà di chi capisce in profondità l’animo altrui. Pochi sanno che Aleksej doveva essere il protagonista del continuo dei Fratelli Karamazov, ma l’opera non è stata nemmeno iniziata causa la morte di Dostoevskij nel 1881.
Lo spettacolo riporta fedelmente gli stati d’animo forti dei personaggi, il loro tormento interiore e il modo per esprimerlo, dato che ai fratelli Karamazov “tutto è permesso”. Le loro riflessioni sulla virtù e sull’esistenza di Dio rispecchiano esattamente le loro peculiarità: il padre ammette di aver perso la fede a pranzo, durante un racconto di un suo amico, e quindi sta ancora mentendo a se stesso, Ivan si chiede dov’era Dio quando una bimba è stata imprigionata da sua madre in una latrina fino alla morte di fame, e ironizza: “esiste Dio? Quant’è vero Iddio non lo so!”.
Gli attori, diretti dal regista Guido De Monticelli, sono molto bravi a tenere sempre l’energia alta, a non farci perdere l’attenzione, anche nelle riflessioni più profonde e struggenti. Tutto il lavoro sul testo di Dostoevskij rende lo spettacolo molto bello ma allo stesso tempo un po’ pesante, anche per la durata di più di tre ore. Comunque tutti i tentativi di “alleggerire” la narrazione, magari con una scenografia più dinamica o un uso delle luci di maggiore impatto scenico, avrebbero solo snaturato Dostoevskij.