Un Amore in salsa gitana con Carlo Alighiero e Elena Cotta

Fino al 19 marzo 2017 al Teatro Manzoni di Roma per la regia di Carlo Alighiero

Un mappa nelle terre della Lettonia a Riga, condotti a passo di danza con balli e canzoni russe, dall’affascinante gitana Ania Sesia trait d’union nelle vicende del testo russo di Aleksei Arbuzov, tradotto da Pol Quentin, riadattato e diretto da Carlo Alighiero, fa da ambient per lo spettacolo. Una bella giornata,  alla fine di luglio dell’anno 1968, il primario della clinica Rodion Nikolaievitch, nei boschi verdeggianti, anziché nel suo ambulatorio incontra Lidija Vasil’evna un’affascinante e volitiva signora, in ritardo all’appuntamento previsto per la mattinata. È pomeriggio quando al suo cospetto mentre ciancica canditi, ella circense d’altro rango lo incontra. Fascino, magia e malia le sue carte vincenti su un uomo a detta di lei solo e grigio.

La gitana balla e i due protagonisti si ritrovano al bar. Nelle memorie di Lidija, riemerge il suo mestiere da cassiera nel circo del marito, un clown bianco che canta e diverte con tanto di tromba come nei migliori circhi che si rispettino. Anche questa volta il dottore ciancica ma questa volta sono cornetti. Ella insomma infastidisce i malati della clinica perchè la mattina presto si alza, sale sul davanzale della finestra e canta. Ma la paziente è stata anche attrice e che attrice! Nel ricordarlo riempie la scena alla fine di un concerto all’uscita dalla mitica cattedrale St. Peter’s Church di Riga, quando lo racconta con tanto di encomiabile reviviscenza, al nostro protagonista, il bravissimo Carlo Alighiero.

Un amore è scoppiato. Il cameo di tenerezza si interrompe e riprende sul palco con lo stesso ritmo gitano nel secondo atto. Il primario è tornato da un viaggio e la scintilla amorosa sfreccia i suoi dardi tra fiumi, ruscelli e boschi lettoni. Un altro passo gitano e questa volta è Vasil’evna ad attendere Nikolaievitch e a sorprenderlo su una panchina con una minestra di cavolfiore, o anche con delle polpette. Ma la sua degenza nella clinica è allo scadere e il cruccio della protagonista Elena Cotta, cui il tempo delinea sempre meglio un’abilità scenica, non per nulla, Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2013, è non aver indossato abiti così sorprendenti, appariscenti ed eleganti, che poco si addicono ad una clinica.

L’occasione sarà una cena in un bel ristorante, il ballo della kalinka,  la canzone russa più famosa di tutti i tempi, un’alba rischiarata dalla luna sullo sciabordio delle onde in riva d’oceano in idilliaca compagnia del primario. E lo scintillio degli abiti della grande circense, la cui attesa è più grande della rivelazione, al chiarore della sola luna piena non esaurisce i ricordi nelle parole di Lidija.

Costumi giusti, senza quel quid necessario a fare del quadretto romantico della storia, il sogno. Questo, nella vita, dice la protagonista, non bisogna mai stancarsi di inseguire. Sì esso è rinchiuso in una valigia così piena di memorie da esplodere, per un finale che tarda ad arrivare senza però eludere il caloroso applauso del pubblico ai perfetti attori in una regia che arricchisce di quel pò di gitano, nei momenti coreografici di Ania Sesia il contesto scenico. Ma il migliore omaggio è un saluto per i due protagonisti nei camerini del Teatro Manzoni di Roma.