Totò e Vicè, finalmente a Roma le opere del maestro Franco Scaldati

La compagnia Vetrano-Randisi porta in scena Totò e Vicè di Franco Scaldati al Teatro India di Roma

Totò e Vicè al Teatro India

A molti forse, purtroppo, il nome di Franco Scaldati non dirà molto, eppure a pochissimi anni dalla morte di questo straordinario regista, attore e drammaturgo, che nientedimeno Franco Quadri ha definito il Beckett siciliano, leggerne il nome in una stagione teatrale romana riesce a dare un vero brivido. Per chi lo ha conosciuto e apprezzato nella sua “lingua” d’origine, un poetico e indimenticabile dialetto siciliano di cui è riuscito a restituire al suo pubblico tutta la musicalità e l’estrema profondità dei suoi versi, sedersi in un teatro della capitale per vederne rappresentato un pezzo, finalmente tradotto in italiano, al pari di Shakespeare come è stato detto, non può che sprigionare nell’animo una calda emozione.

Morto a 70 anni nella sua Palermo, dove tutti lo chiamavano “Il Sarto” per i suoi inizi alla sartoria del Biondo, solo negli ultimi anni e quasi timidamente si inizia a rievocarne il nome, dalla piccola Montelepre di cui condivideva i natali con il ben più celebre bandito Giuliano, fino in Francia, Svizzera, Germania, paesi che ne hanno da subito accolto il genio. Eppure in quella terra tanto amata dov’era nato e aveva trovato estro la sua poetica teatrale, nessuno si è accorto di lui fino alla fine, una storia triste di emarginazione da circuiti culturali che troppo tardi hanno riconosciuto lo spessore della sua produzione. Vale doppio allora la sfida raccolta da Calbi che lo ha portato al Teatro India di Roma con Totò e Vicè interpretata e soprattutto tradotta dalla compagnia Vetrano-Randisi (co-produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Le Tre Corde), due grandi attori che hanno generosamente offerto al pubblico capitolino una piccola perla del maestro.

Stefano Randisi ed Enzo Vetrano in Totò e Vicè di Franco Scaldati

In un magistrale gioco di ombre e lumini da cimitero del compianto “poeta della luce” come usavano chiamare Maurizio Viani, appaiono i due personaggi, due clown-clochard spogliati dei vezzi comici di John e Joe di Agota Kristof, ma senza perderne del tutto l’ironia, che sognano o si sognano a vicenda, senza sapere in fondo se sono loro i vivi o i morti del camposanto. Impossibile se non inutile spiegarne la trama, la bellezza del teatro di Scaldati sta negli assunti fulminanti dei suoi dialoghi quasi “metafisici”, ancor più straordinari se si pensa che non aveva neppure la licenza elementare. Ma per uno come Scaldati che aveva il dono del racconto, poca cosa, quelle parole arrivano dritte in quei cuori che Vicè dice fatti di mollica, sognando strade fatte di legno, proprio come le assi del palcoscenico, dove Vetrano e Randisi giocano plautinamente sul tema del doppio, dello specchio, dell’altro, scambiandosi domande semplici eppure profondissime.

Recitazione calibrata, dal ritmo perfetto che come un’altalena magica conduce in volo il fanciullino segreto di chi guarda, ma soprattutto ascolta.

Uno spettacolo unico, incantevole, che sa arrivare lontano, laggiù in quell’indistinto crepuscolo dove vediamo allontanarsi a braccetto i due protagonisti come in un film di Chaplin, mentre nell’anima risuonano magicamente le parole del maestro: “la bellezza è degli sconfitti, il futuro non è dei vincitori, è di chi ha la capacità di vivere. E chi ha la capacità di vivere, di essere totalmente se stesso, è inevitabilmente sconfitto'”.