
Giappone, Giappone e ancora Giappone. Il suo antico fascino orientale attrae gli occidentali ininterrottamente dalla metà dell’Ottocento.
Sarà perché vi abbiamo trascorso il mese di agosto percorrendolo in lungo e in largo, ma mai come quest’anno, abbiamo sentito così vicino (dai libri all’arte, fino alla moda), il contatto con il paese del Sol Levante.
Ed anche adesso che il caldo torrido dell’agosto nipponico è solo un ricordo (infernale), la sua aurea magica continua a seguirci. I festeggiamenti del 150mo anniversario del trattato di amicizia e commercio tra Italia e Giappone, (festeggiato anche là con varie mostre ed eventi), sono così l’occasione per assistere “in casa”, al Teatro della Pergola di Firenze, ad una forma teatrale tradizionale tra le più antiche, quella del teatro Nō, che mancava in Italia da circa vent’anni.
Con i suoi oltre 600 anni di storia, è simbolo di un genere di teatro raffinato e colto, a differenza del più grezzo e volgare kabuki; il nō tratta antiche leggende legate al mondo soprannaturale, con un repertorio di circa 250 testi, molti dei quali di autori sconosciuti, dai quali emergono spesso figure fantastiche come spiriti o divinità.
La rappresentazione, suddivisa in due atti unici, è stata messa in scena dalla prestigiosa compagnia del Maestro Sakamura Ujin, che con i suoi cinquant’anni di attività è uno dei principali artefici della trasmissione della tradizione nō.
La scena è delineata dal classico palcoscenico in legno del nō che si fa largo sul palco della Pergola, con il grande pino dipinto sul fondale e la passerella (a rappresentare il ponte) sulla sinistra del palco, la quale come vedremo, farà da passaggio per l’entrata in scena dei personaggi principali. A definirne i contorni, una serie di candele, con paralume in carta, ancora spente.
L’opera nō è anticipata da una farsa di Kyōgen, Il sake della zia (Oba ga sake). Il gioco delle coppie vede contrapposti un nipote amante del sake ed una zia gestrice di una mescita di sake, talmente tirchia, che non gliene ha mai offerta nemmeno una tazza. Il giovane, voglioso di assaggiarlo e irato dal comportamento della zia, che gli nega ogni volta l’assaggio con una scusa, decide così di escogitare uno stratagemma. Prima mette in guardia la zia dicendogli che un demone si aggira nei paraggi e poi, con una maschera si finge demone. Terrorizzando la zia, si fa aprire il negozio, va in cantina e si ubriaca di sake. Purtroppo cade in un sonno da sbornia e la zia, accortasi dell’inganno, lo caccia di corsa dal negozio.
In La persiana con gelosia a grata (Hashitomi), entriamo in piena atmosfera nō, con una serie di rituali di preparazione: l’accensione delle candele/lanterne ad illuminare la scena, l’arrivo dei tre suonatori (flauto e percussioni kotsuzumi e ōtsuzumi) e del coro. Così ha inizio la storia d’amore tra la dama Yūgao e il principe Genji, svelata ad monaco buddhista, intento nella celebrazione di un suffragio per i fiori, da una giovane donna misteriosa che, offrendogli un fiore di “convolvolo della sera”, svanisce. Si scoprirà essere il fantasma di Yūgao che il monaco ritroverà seguendo i suoi indizi e riconoscendone la voce dietro alle persiane abbassate “con gelosia a grata” di una modesta abitazione, dove i convolvoli della sera sono fioriti. È qui che lo spettro di Yūgao, in una danza, narrerà la storia al bonzo, prima di svanire dietro la persiana.
Incantano gli sfarzosi kimono, le maschere rituali e le remote melodie che trasportano in una dimensione atemporale e imperscrutabile. La recitazione degli interpreti (tutti maschili) è cadenzata, come da un metronomo occulto, e la modulazione della voce passa in fretta dai registri gravi a quelli acuti. Mentre gesti misurati con grazia, micro movimenti e pose plastiche disegnano con pochi tratti, come in un haiku, un’azione scenica eterea ed elegante.
Uno spiraglio si apre così sotto lo sguardo incognito degli spettatori, incapaci di coglierne la vera essenza, ma di apprezzarne ugualmente la raffinatezza della forma.