
“Si dava a credito e si prendeva a credito, accettavamo doni e ne facevamo, restavamo debitori e pagavamo debiti altrui. Così vivranno gli uomini il giorno prima del giudizio universale, succhiando nettare dai fiori velenosi, lodando il sole che si spegne come dispensatore di vita, baciando la terra che si dissecca come madre di felicità… tale era la serenità di quei tempi! La morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici dai quali bevevamo. Noi non la vedevamo, non vedevamo le sue mani”. Con rara efficacia Joseph Roth descrive quei giorni, al sole del lungo tramonto dell’Impero che muore, nella cosmopolita Vienna dove le ragazze vestite di bianco guardano dalla finestra reggimenti di ussari sfilare per le strade: colori specchiati di luce intensa, nitore di lustrate carrozze, pensieri in fuga su pomeriggi estivi lunghi lunghi come ombre su prati infiniti. È quella che allora si chiamò, e che noi che abitiamo la contemporaneità continuiamo a chiamare, Belle Époque, ultimo rinascimento d’una Vienna che vedeva Schiele rivaleggiare con Klimt, Richard Strauss con Gustav Mahler, Freud con Breuer, in un rifiorire delle arti e delle scienze come in una Firenze dei temi moderni: accanto, tuttavia, a questa grande bellezza, come oggi potremmo chiamarla, al di sotto di essa, nascosta dallo sfolgorio della luce apparente – perché tende l’uomo a celare ciò che non comprende – rodeva già il tarlo della contraddizione, dell’intolleranza, che si nutriva dei crescenti imperialismi e che avrebbero portato inevitabilmente alla rovina quel mondo.
La guerra – la Grande Guerra – non potrà che essere la logica conclusione di quel percorso, di quel viaggio assurdo che dalla luce muoverà verso il buio e la notte. Naturalmente La Cripta dei Cappuccini sarà scritta dopo, col senno di poi, diremmo, perché pochi, in quell’epoca d’assolata e assoluta luce riuscivano a vedere oltre, toccando con mano il marcio che indeboliva dal di dentro le assi portanti della civiltà che aveva fatto della bellezza la sua religione: fra questi pochi profeti, c’è con certezza Arthur Schnitzler, e la riscoperta, a tutti i livelli, dell’opera sua, in questi ultimi anni, è sicuramente dovuta a questa consapevolezza che mostrò dei mali dell’epoca in cui si trovò in sorte a vivere, e che noi sentiamo, in qualche modo, a noi contemporanea. Perché se è ovvio che quella civiltà, col suo sistema di valori, definitivamente morì nella guerra universale, è indubbio che dalla sua macerazione e dal suo disfarsi, come dal seme, nacque la nostra contemporaneità, nascemmo noi; è per questo che, talora con orrore, riscontriamo in questo o quell’atteggiamento dell’oggi, ombre del passato che fu, moloc inquietanti di cui, invece, avremmo ben volentieri fatto a meno.
Si va a ricercare così anche la produzione minore del teatro di Schnitzler, come questo Vermachtnis, scritto nel 1898, che andrebbe correttamente tradotto con “eredità” – e sarebbe in verità titolo molto adatto alla pièce, come vedremo – ma che invece è stato arbitrariamente reso con Scandalo, a mo’ di specchietto per le allodole, nella convinzione, evidentemente, che un titolo siffatto attizzasse maggiormente certe malsane o inappropriate curiosità.
Il lavoro, mai prima rappresentato in Italia, prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e in scena in questi giorni al Teatro Mercadante di Napoli, narra una vicenda che si svolge nell’ambiente che prima abbiamo descritto, d’alta borghesia viennese, la famiglia Losatti: il giovane Hugo (Filippo Borghi) muore in seguito ad una caduta da cavallo; egli ha avuto un figlio da una ragazza di livello sociale inferiore, Toni (Astrid Meloni), ma fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di rivelarlo a nessuno dei familiari, né alla madre Betty (Ester Galazzi), né al padre Adolf, professore e deputato di idee progressiste (Franco Castellano), né alla sorella Franziska (Lara Komar) e nemmeno all’ancor giovane zia vedova Emma (Stefania Rocca), cui pure è molto legato e alla cugina Agnes (Federica De Benedittis), innamorata di lui. In punto di morte strappa alla madre la promessa che la famiglia si occuperà della ragazza e del figlio che dunque diventano la sua scomoda eredità: appare chiaro fin dal primo momento che la situazione è scabrosa e se la parte femminile della famiglia accetta, alla fine, l’imbarazzante fardello, il professor Adolf e soprattutto il fidanzato di Franzika, il medico Ferdinand (Adriano Braldotti) cercano in ogni modo di ostacolare la permanenza della giovane e del figlio in casa.
La morte del bambino, che sopraggiungerà di lì a poco, sarà l’occasione per far prevalere i più egoistici istinti e mettere definitivamente alla porta la giovane Toni. Una vicenda, come si vede, che poteva dar scandalo, forse, nel 1898, ma che più di cent’anni dopo potremmo apprezzare solo come documento d’epoca, testimonianza di quel perduto mondo di cui parlavamo prima. Impossibile non notare, inoltre, una certa approssimazione nella scrittura di un testo, ripeto, del tutto minore dell’Autore: molti caratteri appaiono stereotipi, talune prese di posizione non abbastanza approfondite, nonostante la lunghezza del testo si ha come la sensazione che tutto rimanga molto in superficie, ci sono dappertutto allusioni e rinvii a qualcosa che rimane poi del tutto inspiegato e irrisolto.
A fronte di questo testo e dei suoi limiti evidenti, la regia di Franco Però sembra spesso limitarsi a gestire l’esistente tentando qua e là di cercare, in qualche modo, un aggancio con la nostra quotidianità, ma pure questo appare alla fine velleitario e confuso. Si spreca, in tal modo, la bella scena, la stanza di casa Losatti dove si svolge l’intera vicenda, costruita sulle tonalità del grigio, del celeste e del legno chiaro, che rimanda alla signorilità non ostentata che ti aspetteresti; così pure, il riuscito gioco delle luci (di Pasquale Mari), del primo atto, col sole che entra attraverso le due grandi finestre della stanza, riversandosi sui mobili chiari, oppure rigando di sole le persiane, cede il posto, nel secondo, al buio del dolore, che letteralmente divora tutta la parete e le finestre creando una situazione che appare in definitiva sottolineatura un po’ scontata e retorica.
Si ha come l’impressione che il regista cerchi, in qualche modo, di comunicarci qualcosa in più, ma che molto rimanga nelle pur lodevoli intenzioni, ricordandoci in tal maniera, suo malgrado, ad ogni pié sospinto, di come bene stia lastricando la strada dell’inferno. Così è per l’elegante dormeuse a bella posta lasciata al centro della scena dall’inizio alla fine, attrezzo principe dell’analisi freudiana, a farci intendere, con ogni probabilità, le relazioni dell’autore con la psicanalisi, ma che rimane poi, alla fine, gesto un po’ sprecato e fine a se stesso, che non trova, nello svolgimento della drammaturgia, alcun seguito; così è, pure, per il tema principale della pièce, quello dell’accoglienza, che avrebbe potuto attualizzarsi – e diventare finalmente interessante – quando fosse diventato metafora e indicatore del nostro attuale dibattito sull’accoglienza della diversità: se il regista tenta timidamente qualcosa in questo senso, facendo parlare Toni e il suo bambino, quando son da soli, in una lingua diversa e sconosciuta (arabo?), il tutto viene sprecato anche qui inutilmente, non ha conseguenze di sorta e lo stesso episodio, inspiegato, non trova, alla fine, alcun senso e giustificazione.
Allo stesso modo, naufraga pure il maldestro tentativo di metateatralità con gli attori che operano il cambio di scena a luci accese e che, usciti, si siedono da un lato, visibili al pubblico, aspettando il proprio turno; anche qui, nessun percorso vero e proprio, nessuna relazione con il realismo, invece, dell’apparato scenico e della recitazione. Non si comprendono nemmeno, fino in fondo, alla fine, perché non adeguatamente supportate sul piano drammaturgico, le diverse posizioni che, sulla vicenda prendono i vari personaggi e che avrebbero potuto ben essere terreno fertile di approfondimento: per esempio il percorso inverso che fanno le due cugine, Franziska che approderà ad una moralità autentica e vissuta e Agnes che invece regredirà su posizioni nette di rifiuto dettato dalla paura; o, ancora, una possibile distinzione tra la “moralità” – che pure non è “morale”, si badi – del professore (preoccupato di far quadrare le sue idee progressiste con il perbenismo che sente “a pelle”) e il “moralismo” di Ferdinand, del tutto strumentale e allineato su posizioni di perfetto conformismo di comodo.
Rimangono, alla fine, tutti, personaggi da commedia, e di una commedia un po’ datata e polverosa scritta tanto tempo fa, se c’è critica sociale, essa è sicuramente rivolta agli uomini di quel tempo che fu, alla “borghesia”, non certo a me, che me ne sto seduto comodo in platea: la loro vicenda non mi tocca, più di quanto non mi possa toccare una qualsiasi sceneggiata o una qualsiasi fiction: quando, alla fine, Franziska, finalmente consapevole, caccia via di casa l’ormai ex fidanzato Ferdinand, il pubblico non può trattenere un mezzo applauso, come farebbe qualsiasi pubblico alla doverosa punizione finale de ‘o malamente, a ulteriore riprova, ove mai ce ne fosse bisogno, d’un irrisolto problema della messinscena, che, piuttosto che stimolare la discussione e la ricerca, di fatto incoraggia il più vieto conformismo. Tu chiamalo, se vuoi, eterogenesi dei fini.