
[rating=3] In un’assonnata cittadina norvegese il console Bernick, “pilastro morale della società” vive amato e rispettato da tutti i suoi concittadini, ignari del fatto che l’onore del loro console si fondi su una menzogna. Infatti egli diciotto anni prima ha sedotto e abbandonato una giovane attrice che per il dolore ne è morta, ha finto un furto ai danni di sua madre e ha lasciato che la colpa di tutto ciò ricadesse sul fratello minore di sua moglie Betty, Johanne Tonnesen, emigrato subito dopo in America con la sorellastra Lona. Ma l’improvviso ritorno a casa di Jahanne e Lona mette in pericolo la rispettabilità del console.
Il console non può dire la verità perchè, come lui stesso sostiene, questo lo annienterebbe, distruggerebbe lui e la sua felicità e poi “Dire la verità? Tutto in me è falsità e apparenza. Per questo sono perfetto per questa società“. Ed è proprio questo il punto attorno al quale ruota l’intero dramma: su cosa si fonda la società degli uomini? In un raro momento di sincerità Bernick dirà a Lona, l’unica donna forse da lui amata: sulle donne. Forse sì, su donne come Marta e come Dina che in segreto sognano una società più libera, dove alle donne sia concesso di “fare” realmente qualcosa, di “esplorare” il mondo e di non essere soltanto una semplice appendice degli uomini.
Oppure no, forse come dice Lona “La vostra società si fonda su apparenza e menzogna ma non c’è verità. E senza verità non c’è libertà”.
Gabriele Lavia, nella duplice veste di regista e attore, porta in scena questo dramma fuori dal tempo, servendosi di una scenografia ingombrante e di una recitazione che non disdegna l’uso di clichés e di caratteristi, perchè tutto deve essere funzionale a riprodurre il clima claustrofobico dell’ ambiente che vuole ricreare.
Ecco allora venir fuori l’immagine patinata di questa società ipocrita, che nasconde sotto un velo di finta moralità tutte le bassezze di cui è capace. Una regia che non lascia nulla al caso, che segue ogni parola, ogni gesto, ogni luce. Una luce che è alba mattutina, tramonto cupo e notte di grandi interrogativi e non delude mai.
Molti i momenti in cui ai lunghi monologhi è accompagnata l’assenza di movimento degli altri personaggi. Tante “istantanee”, tra tutte molto suggestiva è quella in cui in un alba apparentemente uguale a tante altre, le donne si avvicinano alla veranda e di spalle si mettono tutte a guardare il mare per osservare una nave diversa dalle altre che sta attraccando al porto.
Ma forse è l’ultima istantanea quella più efficace: fuori dalla sua casa, sul patio davanti ai suoi concittadini- pubblico, Bernick -Lavia pronuncia il suo solenne discorso, la sua confessione. “Amici, concittadini… sono consapevole che l’unico motore della mia azione è stato il potere.
Devo forse rimproverarmi per questo? No perchè penso di essere l’unico in mezzo a voi ad avere le capacità…e questo è il tempo nuovo, il tempo della libertà”.
Ma se il Bernick di Ibsen si confessava pentendosi del suo passato e guardando al futuro con un misto di speranza e fede, quello di Lavia, messa da parte ogni utopistica visione, utilizza tutta l’arte della retorica per influenzare ancora una volta l’opinione pubblica.
E così anche la speranza di un tempo nuovo sembra soltanto l’ennesima trovata pubblicitaria di un consumato uomo politico.