
[rating=5] Minimacbeth. Uno di quei rari spettacoli in cui ti godi semplicemente, complessamente, lo spettacolo. Con i sensi e con un pensiero rinnovato, inconoscibile. Un affondare chissà dove, nei miti e le leggende dell’infanzia, nei boschi di bambina, nelle battaglie crudeli d’adulta.
In questa messinscena, riscrittura dell’originale di Andrea Taddei (a sua volta ispirato a una versione del Macbeth di Daddi-Marconcini, risalente a circa trenta anni fa), ci sono un’attrice grandiosa come Giovanna Daddi, brechtiana ma con il dono della veggenza emotiva; e un regista come Dario Marconcini che riesce con poco, a volte niente, a ricreare mondi immaginari – spaccati da un uso magistrale della musica e dello spazio.
La scenografia, purificata da simboli essenziali, offre la sua semi nudità al dramma per eccellenza della follia omicida. Il cupo Medioevo, culla di delitti efferati descritto da Shakespeare, si trasforma per l’occasione in un candido bianco adornato da foglie secche e oggetti che fanno risuonare l’Asia (le maschere balinesi usate dagli attori, per esempio), l’Africa (come il bastone, simile a quello dei riti magici e propiziatori), l’Europa (come la scopa in saggina). I rimandi, gli echi si accarezzano in una struttura visiva che palpita, pur immobile come un’ideale miniatura.
Corre astrattamente il sangue degli omicidi perpetrati da Macbeth nella sua delirante scalata al potere, ordita dalla mente criminale di Lady Macbeth. Due personaggi che nascondono una pluralità psicologica quanto mai degna della nostra epoca, e che Daddi e Marconcini fanno tuonare nelle vene. Qui Shakespeare c’è in maniera invisibile, distorta ma presente, forse liquefatta in una drammaturgia inaspettata, un linguaggio calcato, poi improvvisamente letterario. Un’alternanza che non dà tregua e permette l’esplodere di tutti i conflitti ordinari della trama, ma seguendo pecorsi non obbligati.
Percepiamo, in maniera non razionale e indotta dai movimenti scenici, i gesti, i rituali, tutto il senso di colpa che distrugge Lady Macbeth, e la conduce a uno stato impietoso di pazzia; così come le fobie di Macbeth, fino alla sua uccisione per mano di MacDuff. Una storia che non ha niente da invidiare alle faide della nostra penisola, che chissà quanto ancora dureranno. Perché, ci fa intendere questo nucleo artistico, fra i pochi a condurre ancora una ricerca sul piano di regia-recitazione, l’essere umano non è buono. E la malvagità, in piccole dosi, ci pervade. Il teatro può, forse, indicarci una nuova via da seguire?