
Una musica di stampo partenopeo con mandolino di base, la stazione, un caffè e un tavolino, un signore in bombetta e l’altro con cilindro e siamo in scena. “Bastava, … che non avessi tutti quei pacchetti e… quei nodini! Più carico d’un somaro!” L’avventore ha perso il treno e carico di impicci ne ha lasciati un po’ al deposito bagagli della stazione. L’uomo seduto al tavolino descrive con dovizia di particolari e dettagli di come i giovani confezionino gli involti con carta doppia rossa, facendo triangoli lembi e dorsi e nastrini tra le mani sino a comporre dei cappi nei quali infilare le dita! Che poesia! Ma serve a distrarsi vederli cosi attenti a queste faccende. Si l’uomo ha bisogno e di svagarsi e non pensare al suo triste destino. Un modo si attaccarsi con l’immaginazione alla vita.
Come al consulto di un medico bravo le sedie non fanno caso all’alternarsi di un paziente all’altro, ignare di quale sentenza lo specialista proferirà su qualche male ignoto, non esclusa la morte, così l’immaginazione va oltre la realtà e rende sereno al colmo del surreale anche una cruda verità. Si un lampione sul palco fa gioco a quanto sia intimo il pensare dell’uomo con il cilindro, la bravissima Debora Massaro nonchè regista di contanto pirandelliano capolavoro. “caro signore, ecco… venga qua…le faccio vedere una cosa” rivolto all’avventore che ha perso il treno interpretato anch’esso, al femminile da Giusi Anghelone.
L’uomo ha un fiore in bocca, un tubero violaceo dal nome più dolce di una caramella. E’ la morte lo è venuto a visitare gli ha ficcato questa escrescenza in bocca e lo ha rassicurato che ripasserà a trovarlo tra otto o dieci mesi. Si il signore in quel fiore in bocca nasconde un brutto male e la morte imminente e poco gliene cale delle raccomandazioni della moglie affinché non esca. Egli ha bisogno di vivere nel mondo, per non inforcare la rivoltella verso il primo che gli capiti innanzi, sia anche l’avventore che ha perso il treno. E si incanta anche di fronte alla più piccola cosa che gli possa recare poesia con l’immaginazione. Buon caso ne è un albero di albicocche e nel salutare l’avventore “Come le mangia lei? … Si spaccano a metà; si premono con due dita,… come due labbra succhiose… Ah, che delizia!”. Ecco il suo inno alla vita che gli sta per scadere tra le labbra.
E se la triste storia volge al finale l’ultima raccomandazione di questi a quegli, sarà una volta tornato a casa di contare i fili del primo cespuglietto che incontrerà: l’importante sarà sceglierne uno bello grosso. Quanti fili saranno tanti giorni vivrà ancora. Bravissime le attrici e l’estatica regia.