
Sette donne vivono(?) – da tempo indefinito – in un non-luogo oscuro e sotterraneo, che sembra scavato, come sottratto e preservato a più oscuri malanni, nella terra nera, inafferrabile bunker ricavato nella roccia (lava?) buia, buco nero della storia, altrove che molto ricorda scenari catastrofisti appartenenti ad una eterna, fissata, spuria post apocalisse sul tipo di quelle raccontate da Charles Eric Maine o da John Wyndham, rifugio dove esercitare la propria definitiva intolleranza alla luce, nel buio che esalta la voce, ne fissa implacabile cadenze e carature, permette una altrimenti impossibile riconciliazione con lo stancarsi dei corpi che invecchiano.
Sette donne e le voci loro, il loro spesso scontroso e scontento affabulare. Fuori, per quanto ne sappiamo, ci siamo noi – intendo il mondo, l’universo complesso delle cose tutte – oppure l’esatto contrario, il nulla: per quanto ne sappiamo quelle donne potrebbero esser sole, coi loro corpi, colle voci che ascoltano il reciproco dirsi le storie, coi pensieri – come metter freno ai pensieri? – che spesso assumono forme e sapori di ricordi e speranze, desideri e presagi. L’ultimo Decamerone, in scena qui a Napoli in questi giorni al Teatro Bellini, riesce a non essere ciò che non avremmo voluto fosse, ennesima replica – magari in salsa cultural-chic – del solito Decamerone libidinoso delle donnine discinte e dei fratacchioni perversi, o sonnacchioso dei Chichibio e Calandrino dei vetusti licei, o francamente escursionistico dei borghi recuperati alla pseudo cultura del lambrusco e della focaccia al frumento antico.
Certo l’impresa riesce, a Gabriele Russo, che ne firma la regia, in buona parte grazie ad un testo di gran qualità, a conferma dell’eccezionale valore della scrittura di Stefano Massini cui va ascritto il merito d’aver saputo tradurre il gran libro di Boccaccio in “riflessione, antica e modernissima, sull’urgenza del narrare, sul ruolo del narrare e sui meccanismi del narrare”: perché – persi nel mare magnum delle infinite parole, del già detto e ridetto, dell’eterno decrittare inediti mondi lasciandoli alla cura di parole che dovrebbero risuonare come mai pronunciate prima, ma che invece finiscono tanto spesso per finir nel riciclo dei rifiuti, dell’inutilità, dello scarto – potresti arrivare a concepire, prima o poi, magari per stanchezza, l’assoluta inutilità dell’esercizio della parola.
La negazione di questo pensiero, che diventa desiderio, infine, di (ri)valutazione del verbo come unica terapia – potremmo dirla omeopatica – per la malattia dell’affogar di silenzio nel mezzo del frastuono delle parole abbaiate e false, unica speranza d’una salvezza, forse poco meritata, contro la crisi del mondo universo – si chiami peste o morte dello spirito, crollo di certezze, desideri, prospettive. I racconti, affastellati, incistati uno nell’altro, sfuggenti perché intessuti della stessa sostanza dei sogni, ma abbastanza concreti e reali da rinviare sempre e comunque ad una esperienza fondata e tangibile, accoppiati, appaiati più per asimmetria e sorprendenti sotterranei legami che per logici apparentamenti e lampanti sillogismi, ci son tutti e cento, almeno in nuce: impresa già di per sé incredibile, e per la quale l’autore rivendica il merito d’aver messo in evidenza un Decamerone minore pressoché sconosciuto, oltre quello delle solite note, ormai risapute, novelle.
È scelta della regia, invece, e della scena, uscita dalla matita di Roberto Crea, sia l’ambientazione ctonia di cui abbiamo detto, sia, starei per dire di conseguenza, l’idea di lasciare l’interpretazione a sole donne: è femminile, infatti, e rigidamente esclusivo, il culto della dea sotterranea che vive intorno all’archetipo delle nozze sacre tra la dea Ctonia e Zeus da cui prende origine l’universo e il mondo: in questo caso, allora, l’oscuro imbuto che ospita le sette donne potrebbe essere camera magmatica, sì, fuori del tempo, ma più che alla fine di esso, all’inizio, prima ancor che ogni cosa avvenga, invece, e le storie, costrette ad uscir fuori dalle sette donne, partorite con fatica e dolore, altro non siano che l’avverarsi del mondo che non è ancora.
Alle donne, e solo a loro, verrebbe dunque affidato il compito d’eternamente creare il mondo, plasmarlo a partire da un pensiero più che da un ricordo, dal presagio più che dalla memoria, perché “narrare non è dire. Narrare non è parlare. Narrare, io lo credo, è inventare”. Operazione, in verità, a cui le donne, interpretate da sette magnifiche attici come Angela De Matteo, Maria Laila Fernandez, Crescenza Guarnieri, Antonella Romano, Paola Sambo, Camilla Semino Favro e Chiara Stoppa, sembrano attendere con qualche difficoltà, con manifesta stanchezza, talvolta di malagrazia e controvoglia; tuttavia esse vi aderiscono, alla fine, con dedizione e partecipazione quasi fideistica, come ci mostrassero, consentendoci di partecipare alle doglie del parto loro, il rinnovarsi del gioco teatrale, lo svolgersi d’un antico rito, il ricrearsi liturgico del mondo e delle cose che avviene, in perenne continuità, sotto gli occhi nostri.
E così, grazie anche al valore aggiunto della musica (purtroppo registrata) di Nello Mallardo, alla coreografia di Edmondo Tucci, eseguita dal Corpo di ballo del Teatro San Carlo diretto da Giuseppe Picone, vediamo portato sulla scena tutto il mondo possibile, cui i costumi di Giusi Giustino, che sanno di juta, seta e combustione, sangue e fibra, petrolio e fuoco spento, aggiungono un ulteriore surplus d’irreale visionarietà: perché i corpi e la musica, anzi, la musica dei corpi, giunge là dove i materici corpi delle attrici non possono arrivare, nel visionario farsi dell’atto creativo e oltre, nel territorio degli dei e delle idee.
E se la storia della figlia e del suo innamorato serve a ricordarci la maledizione della bellezza, quella del cuoco, della serva e della coscia mancante della gru a descrivere la credulità e la beffa, l’amore la morte e l’anima passano attraverso la storia d’amore della smemorata, mentre il peccato e il fardello ingannatore della carne lo ritroviamo nella storia dell’ostessa, del corpo suo procace e invenduto e del viandante cui si dà per un sacchetto di fiorini falsi, anche se “tutto è stato già raccontato”, “raccontare è osservare la gente, amare la gente”, narrare il corpo e l’anima, la materia e lo spirito, la speranza e la disperazione, l’errore e la verità che passano attraverso il servo Ludovico e la casta moglie del suo padrone, il vecchio re Pietro e la giovane girovaga Lisetta che muore di consunzione d’amore, il ladro di tombe e il santo vescovo che dal suo loculo lo istruisce e lo benedice.
Storie che hanno la pretesa, e a volte ci riescono, di catturare il mondo nella rete del teatro, che non è la vita ma che spesso le somiglia, più come suo ripensamento, in verità, e parodia che come specchio di provata fedeltà: in questo caso l’operazione, nonostante il grande impegno e talento di tutti coloro che hanno contribuito alla messinscena, riesce parzialmente e a tratti; solo, per esempio, nella seconda parte, lo spettacolo decisamente decolla, acquistando ritmo e capacità di coinvolgimento, mettendo realmente insieme, in vera sinergia, gesto drammatico, voce, danza, musica, mentre la prima parte, forse anche eccessivamente lunga, non riesce sempre a sottrarsi alla logica del siparietto, della forzata sepimentazione tra “numeri” recitati e danzati, al forzoso coesistere dei vari “generi” che, appunto, ancor continuano ad esser “generi”. Difetti che amor di verità ci costringe a denunciare, probabilmente frutto d’inesperienza in fase di vaglio e arrangiamento finale, ma che nulla tolgono all’ambizione meritata di questo allestimento, frutto di grandi professionalità.