
Con la prima nazionale di Strangely Familiar – Di un uomo che incontra sé stesso, il Teatro Metastasio di Prato inaugura la stagione teatrale sotto il segno dell’audacia. Jakop Ahlbom, visionario regista svedese noto per la sua capacità di fondere surrealismo e impatto visivo, trasporta il pubblico in una realtà distorta, un incubo dove temi come la pressione sociale e la frustrazione personale diventano un viaggio perturbante nell’inconscio. In questa produzione, il regista esplora la natura alienante del confronto con il proprio doppio, trasformandolo in un riflesso dell’ansia esistenziale e dell’identità frammentata.
Pur essendo un tema ricorrente nella tradizione letteraria e teatrale, quello del doppio viene reinterpretato da Ahlbom attraverso una visione estetica che richiama il surrealismo cinematografico.
Protagonista della storia è un impiegato la cui routine viene sconvolta dall’arrivo di un nuovo collega che si rivela essere la sua copia perfetta. Questo doppio, capace di ottenere il riconoscimento e l’attenzione che il protagonista non ha mai ricevuto, diventa simbolo della sua invisibilità agli occhi dei colleghi e del mondo.
L’ambientazione, con atmosfere post-apocalittiche, riflette una sorta di distopia industriale, con un’architettura che combina elementi di modernità e decadenza, un mix tra presente e passato. Le superfici usurate, i muri scrostati e il design degli arredi trasmettono un’atmosfera opprimente e trasandata. Un ambiente che richiama alla memoria lo spazio claustrofobico di film come Brazil di Terry Gilliam, con un senso di smarrimento amplificato dalle geometrie rigide delle stanze, e dai corridoi senza via d’uscita.
Come in una tela di Escher, l’architettura scenica labirintica e in costante movimento amplifica la spirale di alienazione del protagonista. I corridoi e gli spazi si trasformano incessantemente, ricordando i labirinti di Borges, dove ogni via d’uscita si rivela l’ingresso di un nuovo passaggio, in una continua metamorfosi del palcoscenico dove tutto, alla fine, torna al proprio posto. Questo disorientamento non è solo un espediente visivo, ma diventa il cuore emotivo dello spettacolo, in cui lo smarrimento dello spettatore si intreccia con quello del personaggio, alimentando la tensione narrativa.

L’allestimento evoca un mondo desolante, dove l’identità e il riconoscimento sociale sembrano sfuggire, dichiaratamente ispirato alle tematiche distopiche di Severance (Scissione) o le opere di Roy Andersson, che con atmosfere assurde e stranianti esplorano il vuoto emotivo e il distacco sociale in ambienti deumanizzanti, fino a Il doppio di Dostoevskij, che scava nell’angoscia esistenziale dell’uomo che si confronta con il proprio doppio.
Questa ricca rete di riferimenti si innesta con maestria nella struttura narrativa, amplificando il senso di disagio e la progressiva perdita di identità del protagonista.
La regia di Ahlbom si traduce in una macchina teatrale perfettamente sincronizzata, dove ogni gesto, ogni elemento scenografico si inserisce in una sequenza di azioni e reazioni che mantengono lo spettatore in costante tensione.
La musica, a tratti straniante e a tratti ritmica, amplifica l’atmosfera angosciante, in cui la logica comune viene continuamente sovvertita.
L’uso delle luci in chiaroscuro gioca un ruolo fondamentale nel definire il tono noir dello spettacolo. I contrasti di ombra e luce non solo scolpiscono visivamente la scena, ma enfatizzano anche l’idea di doppiezza e frammentazione dell’identità, con effetti drammatici che sembrano trasformare lo spazio in un non-luogo psicologico.

La drammaturgia di Judith Wendel, volutamente disorientante, si integra bene con il linguaggio visivo dello spettacolo, accentuando l’atmosfera surreale e contribuendo alla costruzione di un universo inquietante e onirico dove perdersi.
L’intero cast, con una precisione quasi meccanica, contribuisce a creare un complesso gioco di specchi in cui il concetto stesso di realtà è continuamente messo in discussione.
Lo spettacolo mette nuovamente in luce l’abilità di Ahlbom nel costruire universi scenici complessi e affascinanti, un tratto già evidente in Lebensraum, ispirato a Buster Keaton, e presentato anni fa al Fabbricone di Prato. In Lebensraum, così come in Strangely Familiar, seppur con un’atmosfera più oscura e onirica, emerge lo stesso amore per la precisione millimetrica, dove ogni elemento della scenografia si integra come parte di un ingranaggio perfetto, muovendosi in sincronia per condurre i personaggi in una sequenza di situazioni sempre più imprevedibili e surreali.
Nei lavori di Ahlbom il corpo diventa il mezzo per esplorare temi esistenziali senza mai ricorrere al linguaggio verbale. Anche in questa produzione, i performer esplorano il movimento, con una fluidità e una precisione tale da trasformarlo in un racconto visivo. Ogni gesto, per quanto meccanico, è carico di significato, ogni contatto tra i corpi diventa una forma di comunicazione non verbale che sottolinea l’angoscia e il senso di straniamento dei personaggi.
Jakop Ahlbom dimostra la capacità di costruire un intero mondo immersivo, un universo dove il perturbante diventa “stranamente familiare”. Un universo sospeso tra realtà e illusione, che lascia emergere una riflessione sull’essenza della nostra percezione. In Strangely Familiar, l’incontro con il proprio doppio diventa un viaggio nelle pieghe più profonde dell’inconscio, dove l’io si sdoppia, si frantuma, e si ricompone in una continua negoziazione tra ciò che crediamo di essere e ciò che temiamo di diventare.
Uno spettacolo che non offre risposte, ma invita a perdersi nell’incertezza, accogliendo il mistero come parte integrante del nostro essere.