
Lieve ma graffiante, giocato su una pantomima ispirata a brani musicali cult, Life on Mars di David Bowie, o Brain Damage/Eclipse dei Pink Floyd, I marziani al mare (dieci anni dopo) ha registrato un ottimo riscontro di pubblico. Pubblico folto che ha preso d’assalto il Teatro delle Spiagge di Firenze, uno spazio che non fa rimpiangere il clima soffuso e informale dei teatri off, o di confine, e che non è raro incontrare, ad esempio, in un quartiere di Londra.
Pregio di questa produzione è l’essere una scrittura originale di Alberto Severi, la cui penna ha saputo rievocare una malinconia strana e lontana, in stridore con il nostro stile di vita e con la mentalità disillusa che pervade la nostra epoca – risucchiata dai social network.
Anni Settanta. I marziani sono loro, Mara e Alvaro, sposati da trent’anni. Lui in pensione, lei casalinga, fiorentini purosangue in vacanza alle Spiagge Bianche di Rosignano Solvay nel mese di settembre – perché si sa, a settembre si spende meno. Trent’anni di tradimenti da parte di Alvaro, che Mara sopporta per rassegnazione e impotenza, paura del cambiamento, il ricordo di una passione rinsecchita. Che sfoggia in maniera platonica per il prete comunista della parrocchia, e per le lettere che la figlia le invia dalla capitale anglosassone; lettere e musicassette, con brani nuovi, glam-rock, alieni. Alvaro flirta con le bagnanti, punzecchia la moglie, parla di politica, uguaglianza sociale, di tramonti che assomigliano a un guscio d’uovo schiuso. Mara sfoggia un toscano stretto infiocchettato da un’ingenuità esilarante. Molti sono i giochi di parole a supporto di questo personaggio schietto e indifeso, che riesce a sfiorare le corde di ogni donna affetta da bovarismo. Il rifugiarsi nei rotocalchi, in sentimenti immaginari e nell’idea che, finalmente, un giorno un’astronave plani sulla sabbia e la porti su Marte, per iniziare un nuova esistenza. La frustrazione e repressione di Alvaro lo spingono invece fino ad un bacio omosessuale con un certo Pierluigi dietro le dune, rivelato a Mara per caso da una confessione su un foglio scritto. Il conseguente finto annegamento, per attirare l’attenzione e, forse, anche per un raptus di indignazione, la ricongiunge al marito; che si precipita per salvarla, chiamandola due volte “amore“.
L’amore li salva per un lungo attimo, giusto il tempo di un ballo a due, su un brano che sembra uscito da uno dei migliori film estivi dei Vanzina. Come due moderni coniugi Cupiello – in perenne conflitto – il parlarsi, confidarsi, sfogarsi, criticarsi, porta al punto di contatto. Per un onesto esempio di effusione scenica non sdolcinata, che mira a ristabilire una disumana umanità. Senza l’epilogo del delitto familiare, che purtroppo dilaga negli ultimi decenni in Italia.
La regia di Nicola Zavagli gioca sulla spontaneità e insieme sull’esagerazione delicatamente grottesca dei comportamenti. Per uno spettacolo che non chiede di essere più di quello che è. Un gradevole flash sull’italiano medio. Tra tenerezza e rancore.