
Si apre, il sipario, rivelando un altro sipario chiuso; all’apertura di questo, e, poi, in rapida successione, di altri che sempre più e sempre meglio rivelano particolari della scena – un interno di casa con diversi personaggi che discutono di politica, sapremo più tardi essere gli amici di Danton – si entra dentro uno altro spazio (l’universo di alcuni protagonisti della Rivoluzione) e un altro tempo (quello appunto del trapasso dei tempi dall’evo moderno al contemporaneo) con un vertiginoso movimento in avanti: viene guidato, l’occhio nostro – ed è come se a muoversi sia tutto il nostro essere – dentro questa realtà, con una tecnica che potremmo definire l’equivalente teatrale della carrellata cinematografica: raffinato espediente – non l’unico, come vedremo – che il talento di Mario Martone mette a servizio di questa pièce scritta nel pieno della temperie romantica ma che si rivela, ai nostri increduli occhi, indicibilmente moderna e attuale, portandoci inevitabilmente a pensare che l’uomo, in fondo in fondo, sia condannato inevitabilmente a viver le passioni sue sempre seguendo gli stessi schemi, in eterno invariabili.
Siamo a Napoli, per la conclusione della Stagione del Teatro Stabile, non al Mercadante – chiuso per lavori di adeguamento antincendio – come si dovrebbe, ma al Politeama; e la scelta di questo lavoro, La morte di Danton, scritto nel 1835 da Georg Büchner, più famoso come autore di Woyzeck, appare quanto mai appropriata e involontariamente riparatoria, nei confronti del pubblico dello Stabile, privato, se pure temporaneamente, della sua principale sede. Perché si ritrova, l’ignaro spettatore, catapultato al centro delle passioni e delle miserie della Parigi del marzo 1794, sollecitato ad una partecipazione emotiva che spesso lo porterebbe quasi ad abbandonare la poltrona più o meno comoda e a condividere con quel gruppo di attori una (ri)evocazione che spesso non è solo ricordo, ma scava nella carne e nel sangue del presente: nel pieno del Terrore, ove tutti vivono ossessionati da quel vero e proprio convitato di pietra – la ghigliottina – ma in grado, pur se non in scena, di inquinare i pensieri e dirigere le azioni di coloro che ebbero in sorte di vivere in quei giorni, sorta di Moloc assetato di sangue che ucciderà, in nome e per conto della Rivoluzione, tutti i figli nati da quella.
Così, se nel testo è facile ritrovare i segni del gran rigore e della genuina passione per la storia che animò l’autore, convinto com’era della grande importanza dello studio della storia, anche come fonte d’ispirazione per il poeta – “Il poeta drammatico non è, ai miei occhi, nient’altro che uno storiografo; è però superiore a questi perché ricrea la storia per la seconda volta … Il suo compito più alto è quello di avvicinarsi il più possibile alla storia così come essa è veramente accaduta.” (G. Büchner, Lettera alla famiglia, 28 luglio 1835) – allo stesso modo ci si rende conto subito di come la sua scrittura secca, sfrondata di ogni retorica (tanto da far vieppiù risaltare, per contrasto, la demagogia dei roboanti discorsi dei personaggi) risenta delle aspirazioni e allo stesso tempo delle delusioni rivoluzionarie che in quel particolare momento erano in cima ai suoi pensieri: la rivoluzione diventa di fatto impossibile, stretta com’è tra vortice nichilista e voglia restauratrice, inverosimile, anzi, qualunque velleitario ed illusorio libero arbitrio all’interno del “fatalismo spaventoso della storia”. “La necessità è una delle parole della dannazione con le quali è stato battezzato l’uomo. Il detto: ‘È necessario che ci siano degli scandali, ma guai all’uomo per cui lo scandalo succede!’, è raccapricciante. Cos’è che in noi mente, uccide, ruba?” (G. Büchner, Lettera alla fidanzata, novembre 1833).
È stupefacente ritrovare la citazione evangelica (Mt. 18,7) e le altre frasi con minime varianti nella scena tra Danton e Julie del secondo atto, ed è appena il caso di notare come la figura di Julie sia costruita sul modello della fidanzata dell’autore, Wilhelmine Jaeglé. Riflette, l’astenia di Danton della prima parte della pièce, in uno col suo epicureo edonismo, la disperata e sfibrata resa di fronte all’incapacità di trasformazione del mondo e della storia: i popolani continuano a dibattersi nelle loro miserie, assetati di sangue e prigionieri della demagogia e del populismo dei grandi del momento, che si sbranano tra loro, maschere senza volto, attori di una recita che spesso si rivela priva di senso.
Nel primo atto vediamo agire tre gruppi: da un lato i seguaci di Robespierre (Paolo Pierobon), primo fra tutti l’infido Saint-Just (Fausto Cabra) che in questo momento guidano la Francia e la Rivoluzione, in pieno delirio di potenza e di sangue; dall’altro Danton (Giuseppe Battiston) e i suoi amici, come Desmoulins (Denis Fasolo), amareggiati per il perdurante terrore e per il sangue che continua a scorrere: si rendono conto, pur non essendo moderati, che la dittatura della nobiltà ha ceduto il posto ad un’altra non meno dura e amara: ciò a cui assistiamo non è, si badi, la lotta tra rivoluzione e conservazione, ma tra due diverse modalità di rivoluzione, tra loro, di fatto, inconciliabili. Scegliere tra le due è il dilemma cui ogni rivoluzionario è chiamato, ad un certo punto della parabola, nell’amara consapevolezza che spesso sarà la Rivoluzione stessa, a prendere la sua strada e trascinare ogni cosa nel baratro. In mezzo il popolo, che ondeggia tra l’una e l’altra opzione, pronto a darsi totalmente all’una o all’altra delle fazioni, non tanto in base a fatti, quanto alla capacità, dell’uno o dell’altro partito, di sollecitare le passioni più infime: ritratto impietoso, invero, del popolo e dei populismi da cui si lascia sempre ingannare.
Nel secondo atto Danton viene imprigionato: la sicurezza che la Convenzione non lo condannerà, in forza dei suoi grandi meriti rivoluzionari cede ben presto all’evidenza: molti consiglieri, in seguito ai discorsi di Robespierre e Saint-Just, che vengono accolti da grandi applausi, cambiano idea. Non sono possibili favoritismi, anche l’aver combattuto valorosamente per la Rivoluzione non può essere un titolo di merito, occorre che la ruota della Storia giri liberamente e che la Rivoluzione, come Saturno, divori i suoi figli. Nel terzo atto Danton ritrova la forza dei tempi migliori e sembra avere la meglio, nel discorso di fronte al Tribunale; ma i suoi avversari non esiteranno ad inventar calunnie (oggi le chiamiamo bufale, espressione della post-verità, ma il senso e lo scopo è lo stesso) che gli faranno perdere il favore del popolo.
Nel quarto atto Danton e gli altri son condannati a morte; Julie (Iaia Forte), la moglie di Danton, si suicida, mentre Lucile (Irene Petris), moglie di Desmoulins, allucinata e disperata, non può che gridare in faccia ai soldati – suprema ironia della Storia, arbitra dei destini della fragile umanità – la frase che chiude l’opera: “Viva il Re!”
Opera che solo apparentemente mostra le gesta dei grandi, occupandosi invece, con maggiore incisività e pienezza, delle fragilità degli uomini, delle loro debolezze, della forza che ostentano spesso per sopperire al loro invece disperato smarrimento, la sua messa in scena diventa per Martone occasione di riflessione nel suo personale percorso di riappropriazione del secolo romantico, alla ricerca delle radici del nostro presente, delle nostre inquietudini, irrisolutezze e angosce, guardate comunque attraverso la lente d’una sottile ironia e – insieme – d’un caritatevole affetto che trasfigura, spesso, la realtà, trasmutandola con potente visionarietà.
Così i numerosi sipari che si aprono e si chiudono (a volte con sinistro rumor di mannaia che cade) non possono non ricordare il teatro e, dunque, la rappresentazione della realtà che sul palcoscenico si va dipanando: metateatralità nel suo significato primigenio, di meditazione sulle finzioni che avvengono nel mondo reale, non verità, ma specchio di essa, disvelarsi di tracce di quella nei pensieri e nelle azioni che sul palco si rappresentano. Salvo, poi, a rendere ancor più scoperto il trucco, più stringente il disvelamento dei meccanismi del nostro vivere, allargare lo sguardo d’improvviso, uscire dal teatro oltre i suoi naturali confini, scendere in platea – vecchio trucco ma che quando applicato correttamente e con maestria, come in questo caso, conserva intatto il suo sapore di autenticità – accendere le luci in sala e trasportarti nel bel mezzo d’una strada di Parigi, pur se questi cittadini hanno spesso l’accento di Partenope, come avviene tra il primo e il secondo atto, in una promenade che diventa ben oliata macchina del tempo. Lo stesso meccanismo è alla base del discorso di Robespierre e Saint-Just al Consiglio: la scena diventa proprio il palco degli oratori, tu in platea entri a far parte dell’Assemblea, le urla, gli applausi e le voci provengono da dietro, da destra, da sinistra, sei al centro dei processi della Storia.