[rating=3] In un elegante salotto vittoriano in cui troneggia un enorme martirio di San Sebastiano di Guido Reni, Algernon Moncrieff attende l’arrivo di sua cugina Gwendolen e di Lady Barcknell sua facoltosa zia, per il thè delle cinque, quando viene interrotto dall’arrivo dell’amico Ernest alias Jack Worthing. Worthing dichiara all’amico la sua ferma intenzione di fare la sua proposta di matrimonio all’affascinante cugina di Algernon, Gwendolen. E mentre i due parlano delle possibilità che ciò accada, il campanello, suonato in maniera wagneriana, avverte i due dell’arrivo dell’ irruenta Lady e la figlia.
Dopo aver fatto a sua proposta di matrimonio, Jack dovrà confrontarsi con la terribile Lady che taccuino alla mano gli farà una serie di domande per vedere se inserirlo nel suo elenco dei possibili generi. Ma la tragica notizia dell’assenza di entrambi i genitori unita al fatto di essere stato “trovato” in una borsa da viaggio rendendolo un partito non desiderabile. E soltanto grazie a una serie di fortuite quanto improbabili circostanze, potrà nel finale sposare la sua Gwendolen.
In scena l’ultimo lavoro di Wilde, il più noto e sicuramente il più riuscito, la sua “commedia perfetta” in cui tutti i personaggi si esprimono attraverso paradossi, mostrando una perfetta naturalezza e senza mai mostrare un accenno di sorriso per la battuta di spirito appena fatta.
La regia di Gleijeses rispetta le indicazioni dell’autore: uno stile non farsesco e nemmeno realistico, i personaggi si scambiano le battute con naturalezza senza mostrare di ritenerle spiritose e senza tentare di giustificarle.
E arriva con tutta la sua forza, intatta nonostante i cento e più anni, la critica ad una decadente società vittoriana, che nasconde sotto le sue tovaglie di merletti che sfiorano il pavimento tutto il suo marciume. Ma forse quella società vittoriana non è poi tanto diversa dalla nostra, con la crisi di valori, l’opulenza, l’indolenza, dove l’apparire prevaleva sull’essere.
E il germe della crisi Gleijeses lo semina. Il Sebastiano di Reni, perfetto nelle sue forme è trafitto, il bosco della “Manor House” è un bosco in continuo movimento, inquitante, quasi sinistro.
“Dovremmo trattare molto seriamente tutte le cose frivole e con sincera e studiata frivolezza tutte le cose serie della vita”.
Se non ci fosse stata Lucia Poli a troneggiare ed a stagliarsi sei spanne sopra gli altri attori, per grazia e perfetta aderenza allo spirito del testo, avremmo potuto lasciare con anticipo la sala (anche perché il terribile pubblico del Quirino, troppo abituato ai cliché da salotto ed alla tv di casa, si è distinto per commenti ad alta voce, battute anticipate o ripetute e l’usuale repertorio cafonesco che chiunque frequenti “certe” sale romane ben conosce). L’assunto di Wilde, e la richiesta di uno stile né farsesco né realistico, è completamente disatteso dall’indolente dandy, annoiato e beffardo, dipinto da un Gleijeses mai così fuori parte e sopravvalutato, spalleggiato da un inconcludente Algernorn/Bargilli en travesti. Finale con applausi largamente inferiori a quel che la reiterata presenza della compagnia al proscenio potesse giustificare. Due stelle.
Deludente allestimento, con una chiave registica a tratti troppo farsesca (disattendendo lo spirito wildiano) e la sola, gigantesca Lucia Poli a tenere in piedi un’aderenza al testo che il dandy annoiato e svogliato di Gleijeses o il femmineo Moncrieff della Bargilli violentano spesso. Caratteristi di contorno diseguali e spesso impegnati nell’assecondare un disegno di regia non chiaro. Applausi non entusiastici di un pubblico pecoreccio e cafone, da salotto di casa, impegnato in commenti ad alta voce a beneficio dei propri vicini, volenti o no, ed in stucchevoli sottolineature delle battute: quanto ci vorrà perché a Roma certi teatri perdano quella caratteristica da strapaese entrando, finalmente,nel mondo civile?