
[rating=4] Ci sono posti anonimi, neutri, dove, proprio in virtù della dichiarata inerzia loro, può succedere di tutto, dalle più banali e anodine vicende della povera nostra quotidianità, fino alle grandi imprese e agli eroici ardimenti. Ci sono posti, invece, dove più ampia e densa è la concentrazione delle energie vitali, come se un bizzarro spirito avesse voluto creare nodi di rafforzata intensità: di solito è tanta la pregnanza e il vigore da far sì che, come in virtù d’una divina ricerca d’universale equilibrio, quasi nulla vi possa succeder di notevole. Ma ci sono anche altri posti. Luoghi che, per una piega particolare dell’infinito, di cui ci sfugge il senso e la misura, diventano catalizzatori di reazioni inusitate e particolari tra reagenti che non temono né il tempo né lo spazio, provocando clamorosi cortocircuiti che non suppongono tensione né sul filo della memoria né su quello degli alisei, ma basati invece su quella che una volta un poeta, vecchio ormai di due secoli, chiamò corrispondenza d’amorosi sensi, grazie alle quale persone ormai scomparse ancora ci parlano, attraverso il frutto dell’arte loro e, perfino, giungendo, in qualche modo, a identificarsi con noi.
Così, è in uno di questi luoghi, porte dello spazio e del tempo, che si svolge la vicenda di Les Aiguilles et l’opium, significativo lavoro del genio creativo di Robert Lapage, scritto nel 1991 ma di recente ripreso dall’Autore e presentato ieri sera qui a Napoli, al Teatro Politeama, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia. Pur essendo precisamente collocato nel tempo – anno domini 1989 – e nello spazio – camera numero nove dell’Hotel La Louisiane di Parigi – il sito della rappresentazione risulta alieno al mondo e alla storia come vivesse in una dimensione renitente e spuria: lo è per dichiarata intenzione dell’autore ma soprattutto tale si presenta visivamente e fisicamente.
La scena (disegnata da Carl Fillion), infatti, è un incredibile, ingegnoso, visionario cubo aperto, di cui si vedono sempre solo tre facce che ruotano in uno spazio oscuro, obbedendo, certo, a leggi a noi sconosciute, permettendo che i tempi e i luoghi, i più disparati, entrino in esso, lo penetrino, lo fecondino, ne restituiscano intatte, per l’attonito nostro sguardo, suggestioni e vaghe emozioni. E gli oggetti di scena, che per quanto familiari ci possano sembrare a prima vista, il letto e il materasso, il comodino e la sedia, e perfino i corpi stessi degli attori, incessantemente si muovono inseguendo nuovi equilibri, nell’ossessiva ricerca d’un centro di gravità permanente, ché tutti i precedenti si perdono di volta in volta e si disfano continuamente, restituendo un allarmante – tuttavia sottilmente insinuante e fascinoso – senso di vuoto e nausea.
È il 1989, quando il protagonista della storia, alter ego dell’autore Robert Lepage (sulla scena un prezioso coinvolto e coinvolgente Marc Labrèche, dall’elegante malinconia suadente), arriva a Parigi, nella stanza numero 9 dell’Hotel La Louisiane, che ha due precipue particolarità: è la stanza in cui Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir si chiusero per partorire “La Nausea”, ed è anche l’unica dell’albergo dotata d’acqua corrente, cosicché Juliette Gréco, che di solito la occupava, lasciava sempre la porta aperta affinché – allusivo invito – gli amici esistenzialisti potessero lavarsi ogni tanto. Viene in Francia, il giovane Robert, per un motivo professionale: deve doppiare un documentario sulla Parigi degli anni d’oro della Gréco, di Sartre, di Picasso. Ma si trova anche a vivere un momento particolare, perché è stato da poco lasciato dalla persona con cui credeva di poter condividere tutta la vita; durante il soggiorno a Parigi assisteremo infatti al penoso colloquio telefonico notturno con questa persona, che si trasformerà in addio definitivo, aggiungendo la disperazione per la fine dell’amore all’angoscia dell’insonnia, l’incomprensione culturale e professionale, l’incapacità di uscire dalla propria situazione: un dolore acuto e profondo, insomma, che si traduce anche in vere e proprie crisi di panico. È in questa penosa situazione che il protagonista vedrà uno spiraglio di luce comparando la sua personale condizione di nevrotica prigione alla schiavitù degli “aghi e dell’oppio”, della droga, cioè, di cui soffrivano due personaggi che, per una singolare coincidenza, avevano incrociato questi stessi luoghi, reali o metaforici, esattamente quarant’anni prima.
È il 1949, infatti, quando il sessantenne Jean Cocteau visita New York per la prima volta; nello stesso anno il ventitreenne Miles Davis arriva a Parigi e s’innamora di Juliette Gréco. Si trova, allora, il giovane Robert chiuso nell’asfittica camera d’albergo, a rivivere la vicenda del poeta francese (interpretato dallo stesso Labrèche) e quella del musicista americano (Wellesley Robertson III), attraverso la suggestione delle pagine della Lettera agli americani e della tromba inusuale e innovativa di Round Midnight. Vediamo allora il cielo stellato dell’Atlantico invadere il cubo e Labrèche, sospeso ad un cavo – come nell’antica macchina barocca del “volo dell’angelo” – in bilico su quel firmamento, citare passi del saggio di Cocteau che venne effettivamente scritto durante il ritorno in Francia; vediamo Davis prima euforico attraversare la Grande Mela (verremo trasportati allora al ponte di Brooklyn oppure alla Grand Central), poi, quando le convenzioni e le idee razziste avranno la meglio, e dovrà lasciare la Gréco, consumare la sua disperazione nel conforto dell’eroina in una stanza dallo squallore del tutto simile alla numero nove de La Louisiane. Un viaggio che disperatamente diventa catarsi, dunque, e insieme, grande suggestione visiva, racchiudendo l’intero universo nel microcosmo metateatrale del cubo sospeso sull’oscurità della notte, metafora, chissà, del teatro che, alla fine, riporta alla vita e alla luce: operazione pienamente riuscita, visto l’insistito applauso che la platea riserva agli interpreti.