Le punte poco spigolose di Edges

Al Fabbricone di Prato, un'indagine sul concetto di marginalità nella performance di Ivana Müller. All'interno dell'atteso Contemporanea Festival 2016, fino al 2 ottobre in varie location

[rating=2] Carmelo Bene, in un’apparizione televisiva al Maurizio Costanzo Show, disse: “Basta col sociale, occupiamoci della vita“. Sembra che, a distanza di 31 anni circa da quella dichiarazione, in pochi nel mondo dello spettacolo abbiano colto la sua provocazione, o provato a seguire il sentiero tracciato dal suo pensiero.

Anche fuori dall’Italia non ci si sente al sicuro da messaggi pseudo politici e pseudo sensibilizzanti circa tematiche sociali scottanti – che caratterizzano molte rappresentazioni teatrali o performative contemporanee. Occuparsi della vita e della psiche umana, dopotutto, equivale a occuparsi anche dell’insieme di individui che formano la cosiddetta comunità. E proprio per questo leggiamo Shakespeare e Čechov. Perché hanno lanciato il sasso in uno stagno molto, molto profondo. E il sasso continua a viaggiare nelle stesse acque melmose, composte di tanti, tanti microrganismi diversi.
Difficile ascoltare i mostri sacri. Ma c’è modo e modo di affrontare tematiche come la guerra, o l’emergenza dei profughi.

Ivana Müller dichiara, circa il suo spettacolo Edges che ha inaugurato Contemporanea Festival 2016, di “voler lavorare sull’idea di invisibilità, impegno civile, amore; esplorando nozioni che riguardano l’etica del lavoro, la migrazione, la cooperazione“. Sulla carta il progetto può sembrare nobile. La realizzazione, tuttavia, trasuda una monotona ripetitività di gesti, da parte di performers che sembrano trascinarsi per il palco. L’energia volutamente contenuta, bassa, che i loro volti e le loro movenze comunicano, si combina all’idea di base di volersi occupare delle comparse della storia, degli invisibili, di chi recita ruoli minori. Ma a livello emotivo questo crea un blocco, un muro che non si riesce a sfondare. Niente riesce a sfondare il muro.

Forse solo il fumo che apre lo spettacolo e che resta così, a mezz’aria, sulla scena totalmente vuota e in penombra; o qualche frase inusuale e scintillante, all’interno del macro discorso diffuso fuori campo; forse qualche immagine evocata, di un mondo parallelo più equo e meno violento; oppure il bel racconto del pittore cinquecentesco, che descrive i modelli in posa per il suo quadro. Ma sempre più vi è la sensazione di una elucubrazione a priori, senza smalto nella realizzazione performativa (per sua natura donata totalmente alla voce come azione). E qui la voce si fa acqua piatta e troppo calma, quando si avrebbe bisogno di un oceano in tempesta.

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