
Non è la distopia a bruciare: è ciò che resta quando la cenere ha già fatto il suo lavoro. È da questa sensazione di postumo, di mondo in controtempo, che i Sotterraneo muovono il loro Il fuoco era la cura, liberamente ispirato a Fahrenheit 451. Il romanzo di Ray Bradbury diventa un reperto più che un faro: lo si rovescia, lo si interroga nelle crepe, lo si osserva mentre si sfalda. Visto al Teatro Politeama di Poggibonsi all’interno della rassegna Discipline(s), lo spettacolo abita precisamente questa zona liminare, dove la prospettiva distopica non profetizza più ma restituisce i nostri stessi resti, quelli di una società moderna che si consuma da sola.
La creazione di Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa rilegge il testo del ’53 come si sfoglia un libro stropicciato: per frammenti, deviazioni, sottolineature improvvise. La drammaturgia di Villa disegna un percorso laterale, preferisce gli interstizi alla linearità, indaga ciò che Bradbury omette: gli spazi tra i fatti, le vite minori, le pieghe dove la distopia respira più forte.

La scena, essenziale e scavata, diventa superficie di rifrazione: luci nette, scritte che si imprimono come avvisi di una lingua sul punto di estinguersi, apparizioni che disegnano un paesaggio incerto tra il già accaduto e il possibile. In certi momenti, l’impianto scenico riesce a suggerire quel mondo di roghi e sorveglianza attraverso sottrazioni più che per accumulo, con una lucidità che rispecchia la cifra stilistica della compagnia.
Sul versante interpretativo e registico il lavoro procede in equilibrio, ma non sempre con l’impulso che segnava titoli come Overload o L’angelo della storia. La partitura è complessa: l’energia si concentra in alcuni passaggi, si assottiglia in altri, richiede precisione nei cambi di registro e nelle traiettorie narrative; il cast (Flavia Comi, Davide Fasano, Fabio Mascagni, Radu Murarasu, Cristiana Tramparulo) la attraversa con un approccio misurato, più analitico che deciso. Accanto a coreografie ben costruite, alcune scene basate su sospensioni prolungate tendono invece a dilatarsi, rallentando temporaneamente il flusso e smorzando la continuità dinamica. Ne deriva un andamento a onde, che lascia emergere potenzialità e zone ancora in cerca di una messa a fuoco più netta.

E tuttavia, nei suoi picchi più nitidi, Il fuoco era la cura torna a colpire per la sua intuizione più semplice e inquieta: non servono roghi per annientare una cultura, basta il lento scivolare verso la rinuncia al pensiero. Il richiamo ai clown bianchi, che esplode nel balletto finale su Fire Water Burn, suggerisce una regressione verso la forma più semplice di intrattenimento, dove il pensiero cede il passo all’automatismo del gesto. Sotterraneo suggerisce questa deriva senza enfasi, per interna combustione: un’idea che si consuma da sé, come carta che annerisce ai bordi prima di bruciare.














