
Tutto è una distesa di sabbia con tanto di duna ad accesso inferiore dal di dietro e un cadavere in proscenio quello di Semele, folgorata da Era nel momento del concepimento. Questa è la madre di Dioniso, dio del vino, del teatro e del piacere fisico e mentale, nato dalla sua unione con Zeus, donde la vendetta per gelosia della sposa di lui.
Al centro scena sulla duna alta il protagonista Daniele Salvo, in greco dice di essere un dio venuto dalla Lidia, tra le genti di Tebe con le sue seguaci le baccanti appunto e lo traduce. Il pubblico cospicuo è contemporaneo e italiano. Egli, la sferza della follia in cappa/cappottone marrone, le altre tutte in ecrù, mimetiche alla scena, a guisa di capre con tanto di corna di montone e capelli, parrucconi pelosi, echi di pecore, ognuna munita di tirso, porta le donne fuori dalle case sul monte Citerone, in preda alla voglia di piacere e all’ebbrezza del vino.
Quel tirso o verga è ora il membro della goduria, ora un arma contro gli uomini che del naturale istinto, laddove portato all’estremo della follia si ergono a moralisti e innalzano “ἀγών” agone contro. Sì le baccanti acclamano Eloè, il Dio di Israele, ma sono devote a Bacco. Tutto fedele alla tradizione della tragedia greca, coreute vestite da satiri, assumono sembianze di animali per rendersi gradite agli uomini mentre Dioniso ha le sembianze di un uomo, ma è un dio, piacevole, gentile, aggraziato in vesti talora femminee, suscitando reazioni demoniache.
Tiresia, il grande Paolo Lorimer è il suo vate, ne celebra le sue gesta e valori e Cadmo, Paolo Bassegato, il padre della Baccanti invano tentano di persuadere Penteo, re di Tebe, bello e bravo Diego Facciotti, che Dioniso è un Dio e non un demone. Lo fa catturare e lo mette in catene ma avere a che fare con una divinità, nata Zeus, implica punizione durissima e letale.
Quella cortesia che nel piacere genera appeal al solo vederlo, il dio si trasforma in un toro con tanto di corna nel secondo atto. Ora in cappa nera e ferocissimo aizza le baccanti con tanto di tirso a mò di lancia contro Penteo, ipnotizzato dal medesimo ormai anch’egli con vesti femminili e “baccante”, con tanto di trucco e parruccone caprino. Donne contro un uomo. Si la vendetta divina perpetrerà verso questi, la morte per mano e nelle mani della madre Agave direttrice artistica del Teatro Vascello e avvincente interprete Manuela Kustermann.
Anch’ella baccante figlia di Cadmo, sorella di Semele, avrà come vessillo agli occhi del padre e nella memoria del marito Echione, l’uomo-serpente, animale sacro a Dioniso, la testa insanguinata del figlio, folle per il piacere dell’orgia che l’ha resa preda e per i fumi del vino, ignara del gesto compiuto. Lo ha scambiato per un leone.
Penteo appare però anche come un doppio di Dioniso, e in quest’ultimo scorcio di spettacolo si avvicina sempre di più ad assumere le sembianze di una Menade e del dio stesso. I messaggeri anch’essi eccelsi nella regia dello stesso protagonista senza pecca, se si esclude l’unico dubbio sulle cappe degli interpeti maschli, ecrù per Tiresia, kaki per Cadmo, marrone e nero per Dioniso, e pelle nera per Penteo, per la possibile decontestualizzazione, negli intenti del costumista Daniele Gelsi, raccontano a voce il valido Simone Ciampi e nell’ipnotizzante canto, la voce di Melania Giglio, quanto è accaduto sul Citerone.
È commiserazione e conversione nella tragedia quella che si coglie nella parole senza un vero destinatario di quest’ultima. È qui che Dioniso è un dio nato due volte. Ma la morale in greco, immediatamente tradotta, anche per il finale a detta di Dioniso, è che “….contro l’inatteso non può l’uomo ricercare l’atteso, perché il Dio sa come fare….”. Uno spettacolo difficile ma che lascia il pubblico piacevolmente attento per tutte le due ore di rappresentazione, rendendo difficile l’applauso allegro e divertito, ma comunque caloroso e soddisfatto per il congedo della compagnia.