
Riapre le sue porte il Teatro Mercadante, e prende il via la nuova Stagione del Teatro Stabile di Napoli, proprio nel momento in cui, tra mille incertezze, la curva del contagio riprende a salire e carica d’incognite un incerto futuro. Eppure il nuovo Direttore Roberto Andò ha preparato un Cartellone coi controfiocchi, con tanti spettacoli di pregio e di sicuro richiamo, a partire da questo che apre la Stagione: I manoscritti del diluvio, del canadese Michel Marc Bouchard, messo in scena per la prima volta nel febbraio 2003, tradotto da Barbara Nativi e affidato alla sapiente regia di Carlo Cerciello.
Il diluvio è avvenuto. La pioggia è caduta a torrenti sul piccolo villaggio isolato del Quebec, la piena del fiume ha strappato tutto ciò che incontrava. L’alluvione ha fatto in modo che il paese smarrisse la sua identità, fatta di case e chiese, vicoli e portoni, l’onda di fango ha squarciato e rovinato gli archivi di un circolo di scrittura di anziani, dove un gruppo di uomini e donne s’erano riuniti per trascrivere e raccogliere ricordi, come l’antico scriptorium delle abbazie, capsule del tempo dove tramandare il senso e l’essenza di civiltà ormai perdute: partiti i figli, i vecchi rimasti, ormai scarti della società che li aveva prodotti, avevano cominciato a mettere su carta storie grandi e piccole. Ora la Storie e le storie che la compongono è diventata amara poltiglia, humus che caratterizza quello che ormai è un non-luogo, diventa ambiente e paesaggio, cratere di un mondo ctonio dove abitano ormai solo fantasmi.
Frammenti di vite e lacerti scorrelati di memoria, tutto andrebbe ricomposto, riunito, dovrebbe acquistare un senso nuovo anche dall’evento apparentemente solo distruttivo, occorrerebbe rimettere tutto in ordine, anche creare un ordine diverso e migliore, cancellare le devastazioni del caos, ricordare, restaurare, riscrivere… Ma come? Quali parole ricordare dell’esistenza di prima, quali da salvare, come Noè con gli animali? Per chi, poi, riscrivere tutto questo?
Nella sua determinazione a salvare le tracce del mondo che era, Samuel, leader di questo gruppo, diventa cieco di fronte alla realtà che sta cambiando intorno a lui, perché l’alluvione significa per alcuni dei suoi vecchi compagni la possibilità di ottenere finalmente un sogno fino a quel momento impossibile, per altri, di confessare amori segreti e parlare del futuro. Assistito da Danny, angelo caduto – e come ricordano, quelle ali spiegate, infantile sogno d’uno spirito ambiguo, quelle del Ferdinando di Ruccello – l’unico rimasto in questo villaggio, Samuel si propone di immortalare il lavoro del suo gruppo di anziani scrittori proprio mentre stanno per abbandonarlo.
E l’abbandono e il senso tragico del distacco è insito nell’idea stessa di questo allestimento: crea, Carlo Cerciello, con la complicità delle scene disegnate da Roberto Crea e i costumi cenciosi e lunari di Daniela Ciancio, un cratere grigio di carta e apparente insignificanza, reso informe e grigiastro dall’acqua e dalla paura, un mondo che occupa tutta la platea del teatro come se un’enorme ameba si fosse cibata del teatro che c’era prima, del mondo di prima, fino ai primi palchi dove sediamo noi, pubblico sparuto e ancora inquieto e immoto, fino al palcoscenico “interdetto” delle nostre disillusioni, il teatro fermo e puramente digitale di questa lunga assenza che sta vivendo, che stiamo vivendo, anemico come le ombre asettiche che si muovono nel biancore immacolato ma non innocente dell’inverno del nostro scontento, di questa lunga eclissi dell’umanità che è il nostro vissuto, insieme opportunità e disperazione.
Il diluvio, l’acqua, l’alluvione, diventa così metafora d’ogni evento che costringe l’uomo a ritrovare se stesso, o almeno ciò che ne rimane: è, al tempo stesso, e con eguale intensità, fine di un mondo e nascita del nuovo, ondate devastanti son quelle dell’omologazione dell’esistenza, dell’oppressione dovuta alla dittatura dei diktat sociali, della globalizzazione che banalizza culture specifiche. Falso sogno universalistico, la globalizzazione selvaggia finisce per privare il mondo della varietà dei suoi colori, della sua bellezza e in definitiva della sua umanità, finisce in un futuro monocromatico per forza, come il gran buco grigio in cui anche i ricordi collettivi son sospetti di “terrorismo”: il diluvio, l’eclissi, son l’oppressione sul cuore delle mode giovaniliste, in cui gli anziani sono soliti occupare territori preconfezionati all’interno di un ordine imperfetto creato da altri. Un mondo muore, il nuovo soffre delle doglie del parto, non sappiamo se sarà migliore del vecchio.
Il linguaggio di Michel Marc Bouchard, a volte terroso, a volte lirico, naviga tra astrazione e rito sensuale, la sua parola ha un sapore d’ambizione e astrattismo, con evidenti risonanze di memorie riguardo alle minacce che gravano sulla nostra cultura, tuttavia mai insignificante, caricato com’è dal lievito del calore umano, privo del giudizio sulle umane miserie, ansioso, invece, di tenerezza per tutti. È un mondo dove i ricordi, che hanno rilevanza e profondità di giganteschi iceberg ingombranti e grigi, acquistano carne e sangue non solo dalla Storia, imperfetta narrazione degli avvenimenti epocali, ma pure, e forse soprattutto, dalle piccole storie comuni, dalle sbiadite memorie delle minigonne di Mary Quant, residuo di una sweet London del tempo che fu, dei tatuaggi, dei piercing dei più giovani.
È teatro di fantasmi, quello di Michel Marc Bouchard, di personaggi che, pur nel loro apparente “realismo”, spesso diventano proiezioni personificate di inquiete istanze, erratici vissuti, tensioni spesso riconducibili all’ambito familiare: diverse, alla fine, saranno le strade e i destini di di Samuele e dei suoi compagni. E, naturalmente, il tema molto pronunciato della vecchiaia percorre tutta la pièce. Se la pioggia dell’alluvione è “l’incontinenza di Dio”, Bouchard dipinge la spesso silenziosa disperazione dei suoi personaggi, dimentichi della voglia e della gioia di vivere da quando i loro figli se ne sono andati: quand’è che smetti di vivere, quando sei vecchio o quando sei morto?
La morte è, allora, solo il suggello finale, la certificazione di una scomparsa avvenuta molto prima? Coglie a perfezione Cerciello, il senso ultimo del lavoro di Bouchard, che risiede e trova la sua ragione ultima nel fotografare il passaggio, la mutazione. I tempi ultimi sono già qui, nell’ossessione della velocità che sostituisce il piacere della riflessione, la profondità con l’ebrezza degli orizzonti lontani, l’analisi con il diagramma di flusso. I dinosauri sono qui, in questo grigio cratere e soffrono già il buio della notte: recuperato il corpo della moglie – la prima parte di sé già morta – Simon non può che avviarsi verso l’ambigua luce lontana. Gli applusi, sparuti per forza maggiore ma non intimiditi segnano, o forse sognano solo, chissà, un inizio nuovo.