
È simile a un viaggio onirico il nuovo spettacolo teatrale di Robert Wilson dedicato al poeta Fernando Pessoa. Commissionato e prodotto da Teatro della Pergola (Firenze), e Théâtre de la Ville (Parigi), coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal de Lisboa, Festival d’Automne à Paris in collaborazione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg, dopo la Prima Mondiale al Teatro della Pergola di Firenze dal 2 al 12 maggio 2024, è stato ora nuovamente rappresentato in Italia dal 13 al 16 febbraio 2025 al Teatro Politeama Rossetti di Trieste.
Terminati i 90 minuti di rappresentazione, la sensazione è appunto quella di essere stati teletrasportati in un’altra dimensione, visionaria e persino metateatrale. È l’effetto di voler portare sul palcoscenico la poesia abissale, inafferrabile e impetuosa del poeta portoghese. Ma è anche il prodotto di un’accurata e imponente luminosità scenica firmata sempre Robert Wilson con la collaborazione di Marcello Lumaca, di fragorosi e inaspettati effetti sonori che cadenzano i vari episodi, e di una recitazione che combina sapientemente letteratura, arte, vita e dramma.

Il primo motivo di disorientamento è quello provocato dalla voluta scissione tra udito e vista: la lettura dei sottotitoli italiani, proiettati nella parte alta della scenografia per tradurre la recitazione in portoghese, francese e inglese, ostacola l’osservazione attenta di quel che accade sulla scena. Eppure il pubblico ne è costantemente attratto e rapito. È la metafora dell’agonismo tra le percezioni nella simultaneità del presente. La vita per Pessoa è un incedere ingordo di sensazioni, è l’occasione unica in cui sperimentare tutte le dimensioni di sé, comunicandole umilmente e timidamente con il linguaggio per esplicitare questa concitata ricerca di senso. Una vera impresa di Sisifo.
La seconda anomalia è appunto la mescolanza di lingue che in certi passaggi si sovrappongono a tal punto da arrivare a costituire un unico generale vocio confuso e caotico, come a voler evocare la cronica attività della mente che non si placa mai, produce sempre pensieri e rielabora costantemente situazioni, di cui l’io è più o meno consapevole. Cos’è la vita se non la compulsiva sfilata di significati che conferiamo agli avvenimenti, forse per compensare la tragica assenza di un significato complessivo che sappia dare senso al tutto? Siamo condannati alla codificazione continua del senso nel non-senso della cornice esistenziale. La prolificità narrativa è una reazione al vuoto di risposte.

Un’ulteriore particolarità, che è però il tratto caratteristico dell’intera opera pessoana, è la spersonalizzazione del protagonista: con i costumi di Jacques Reynaud e il trucco di Véronique Pfluger, sette sono gli attori in scena e sono tutti e sette Pessoa, sebbene nessuno di essi rappresenti definitivamente e compiutamente Pessoa. È la cifra dell’eteronimia, che non è una proiezione altra di sé, ma è una deliberata volontà di non credere al sé. Riflettere sull’io, allestendo un palcoscenico sul quale transita un numero indefinito di personaggi, con un fardello altrettanto indefinito di personali drammi, alleggerisce il carico emotivo dell’esistenza. Cosa sono gli eteronimi, se non esplicitazioni dello strabordante morbo senziente, sregolato e caotico? Ovvero, espedienti letterari per abbassare la febbre di sentire. Nel susseguirsi confuso degli avvenimenti, nell’incontro con l’altro e nell’assolvimento della propria funzione sociale, come rassegnarsi a essere uno? Come non ascoltare la polifonia del corpo? L’eteronimia è la possibilità estetica che il singolo si lasci stupire dalle versioni ignote e inedite di sé. È l’accettazione a essere condannati all’imprevedibilità; è la rassegnazione a essere plagiati da altri sconosciuti che sentono e scrivono per sé. Il tutto nel continuo fluttuare della vita, che nello spettacolo viene appunto rappresentata da una barchetta sul fondo della scenografia che attraversa il mare.
Lo stesso Wilson dichiara di aver approcciato l’opera pessoana cercando di portare in scena proprio “il prisma delle personalità” lavorando col drammaturgo americano Darryl Pinckney. E infatti il titolo dello spettacolo Since I’ve been me, che può essere reso dall’inglese con la traduzione Da quando sono io, è tratto proprio da un frammento de Il libro dell’inquietudine, opera postuma del poeta. La provocazione letterario-teatrale è lampante. L’io è massimamente drammatizzato, frantumato, sbriciolato. La sua certa connotazione spazio-temporale pura utopia. A incarnare questa missione teatrale ci pensano Maria de Medeiros, Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau. Attori provenienti da Paesi differenti, con background culturali altrettanto differenti, e con una recitazione poliglotta: tutti elementi che per Wilson rappresentavano aspetti di coerenza e fedeltà col mondo di Pessoa.

Vivere in altri personaggi significa non squalificare la contraddizione del pluralismo psicologico. Ma accoglierlo e valorizzarlo. Il colpo che s’infligge alla passata filosofia della centralità dell’io è mortale. La coscienza cartesiana non è che una zavorra, un peso di cui liberarsi immediatamente. Con Pessoa, la principale missione della letteratura e della filosofia è la complessa decifrazione della geografia dell’io. La finestra, topos letterario per eccellenza del poeta, è il problematico confine tra dentro e fuori. “In fondo cos’è l’uomo se non un insetto che ronza contro il vetro di una finestra?”, viene ripetuto per diverse volte all’inizio della rappresentazione, come a voler premettere il limite di ogni impresa cognitiva, psicologica e pratica della vita umana. Dunque che fare? Accettare la sfida o rifuggirla? Restare nel dramma delle contraddizioni o temerle? C’è una terza strada ed è quella che sceglie Wilson: il riso. Ovvero l’ironia e l’autoironia, riprodotta dalle risate fortissime che di tanto in tanto irrompono imprevedibili nello spettacolo, ma anche dall’ethos disincantato e smaliziato dei sette personaggi, che sono sulla scena e al tempo stesso la canzonano. “Se non sai ridere, non fare teatro. In qualche modo, devi farti quella risata”, ha dichiarato lo stesso Wilson in presentazione dello spettacolo.