
Dopo il debutto di quest’estate al Napoli Teatro Festival, lo spettacolo di Pino Carbone, tratto dall’ultimo romanzo del collettivo Wu Ming (edito da Einaudi nel 2014), L’armata dei sonnambuli, torna sulla scena napoletana, al Teatro Nuovo, dal 3 al 5 novembre.
Al centro della vicenda il biennio del Terrore, che seguì alla Rivoluzione Francese tra il 1792 e il 1794, visto attraverso quattro personaggi estremamente diversi tra loro: Lèo Madonnet, attore italiano sull’orlo del fallimento (Rosario Giglio), Marie Noziére, sarta che fa della lotta per l’abbassamento del prezzo dello zucchero l’occasione per una rivolta femminista (Francesca De Nicolais), Orphée D’Amblac, medico che studia strani casi di sonnambulismo (Andrea de Goyzueta) e il Cavaliere d’Yvers, rappresentante della Francia reazionaria, che mette su un esercito di sonnambuli per liberare il figlio del re decapitato; quinto personaggio, fuori dalla storia, è il narratore (Renato De Simone), che come un coro tragico greco osserva, racconta e commenta quanto accade.
Ognuno dei protagonisti racconta la propria storia partendo dalla decapitazione del re e arrivando alla morte di Marat; all’interno di questa linea temporale essi si trovano a dover affrontare tutto quello che accade dopo la rivoluzione ovvero sogni di uguaglianza e parità infranti e l’abbattimento di una tirannide sostituita in un batter d’occhio da un’altra nuova e forse più feroce, perché carica di una spinta moralizzatrice che mancava alla precedente.
Emblema massimo di questa sconfitta è la sarta Marie, che sogna un mondo in cui le donne possano esprimere il proprio parere tanto quanto gli uomini e che finisce invece coperta di sputi durante una riunione della Convenzione a cui ha preso parte.
A questa macchina teatrale già intrinsecamente complessa, il regista aggiunge un ulteriore espediente narrativo ovvero il metateatro e l’abbattimento in alcuni frangenti della cosiddetta “quarta parte”, che divide il palco dal pubblico; così in più momenti la narrazione si interrompe e gli attori iniziano a consultarsi tra loro sul testo che andranno a leggere e sui ruoli da interpretare. Questo strumento recitativo però è un’arma a doppio taglio che va maneggiata con cura: se da una parte lo spettatore si sente chiamato a salire sul palco e a prendere parte a quanto sta accadendo sulla scena, dall’altra è difficile riuscire a farlo scendere senza creare fratture e spaesamenti, tornando a quello che si stava raccontando prima. Nello spettacolo di Carbone, purtroppo, questo espediente non funziona e, anzi, non fa altro che rendere ancora più difficile la comprensione di quello a cui si sta assistendo.
L’armata dei sonnambuli è infatti un’opera difficile, non immediatamente fruibile, che richiede un’enorme concentrazione per afferrare almeno la metà di quello che sta accadendo sul palco. Tutti i fatti narrati, i continui richiami a date ed avvenimenti storici, l’alternanza delle storie, i cambi di scena e di personaggi, non fanno altro che rendere il tutto troppo denso e talvolta caotico dando allo spettatore la frustrante sensazione di non essere all’altezza dello spettacolo. Davanti ad una rappresentazione che trasuda una tale cura e cultura infatti viene da pensare che il problema ce l’abbia chi in sala guarda ascolta e non capisce, perdendo continuamente i pezzi della vicenda, e non chi quella rappresentazione l’ha pensata e portata in scena eppure non è così, a mio parere, che deve funzionare il teatro; se lo spettatore si sente stupido vuol dire che probabilmente qualcosa è stato sbagliato nella messa in scena, impedendo al messaggio di arrivare al mittente in maniera chiara e lineare.
Le premesse perché L’armata dei sonnambuli fosse un buono spettacolo c’erano: il messaggio, per quanto non troppo originale, c’è ed è anche ben attualizzabile; le scene su cui fare leva per suscitare emozioni e pathos non mancano; il testo è ricco di spunti e la lingua ben costruita; e gli attori sono bravi (in particolare emergono Renato De Simone e Rosario Giglio) eppure tutti questi elementi non riescono a decollare e l’opera rimane su un piano del potenziale che si scontra con un reale caotico e complicato, perdendosi in un groviglio di idee buone e intuizioni interessanti.
Pienamente riusciti le musiche di Fabrizio Elvetico e Marco Messina e i costumi di Annamaria Morelli che ben si armonizzano con le scene di Luigi Ferrigno, che raggiungono il loro acme nell’incipit e nell’epilogo.
Tirando le somme, L’armata dei sonnambuli è un’opera da rivedere e migliorare, valorizzando l’enorme potenziale che possiede e eliminando tutto quel superfluo che appesantisce e depista; va comunque riconosciuta una notevole cura dei dettagli e una grande carica energica nella recitazione, merito non solo della bravura degli attori ma anche, credo, della consapevolezza del messaggio che si sta cercando di trasmettere.