
[rating=1] Un muro di plexiglass, sorretto da un portale di tralicci metallici simili a quelli utilizzati per sostenere le luci nei concerti, suddivide l’interno di una casa con divano tavolino e poltrona, dall’esterno, avvolto in una luce celeste fredda e lugubre. Tre pallidi e macabri bambolotti sono seduti sul divano rivolti verso il pubblico. Con questa scenografia inizia lo spettacolo “Macbeth” all’Arena del Sole di Bologna.
All’esterno della casa si anima una festa, che solo conoscendo la trama della tragedia si intuisce possano essere i festeggiamenti per la vittoria contro le forze congiunte di Norvegia e Irlanda per opera di Macbeth. Il protagonista, la sua amata e altri compagni di guerra entrano dalla vetrata completamente ubriachi. Le risate eccessive e gli schiamazzi si alternano a parti più drammatiche dove, sebbene da lontano, si scorge Shakespeare. Questa alternanza di timbri e ritmi scenici “costringerà” gli attori, specie quelli non protagonisti, ad urlare prima di sentire le battute e, una volta creata la predisposizione nello spettatore per un clima drammatico, si passa di nuovo alle risate sguaiate degli ubriachi e ai toni più contemporanei.
I tre bambolotti abbandonati sul divano sono in realtà le tre streghe che annunciano a Macbeth il suo futuro regno. Lady Macbeth li prenderà in braccio mentre piangono, li accudirà, li depositerà in un lettino, se li metterà persino sotto la veste per poi simulare un nuovo parto. Non è molto chiaro cosa questi bambolotti possano rappresentare: le tre streghe all’inizio, poi forse il male che sgorga da Lady Macbeth, l’unica in grado di convincere il marito a compiere atti così ripugnanti per ottenere il trono, mentre in un’altra scena ritornano i bambini che la stessa Lady Macbeth non riesce a mettere al mondo di sesso maschile e che partorirà morti, ancora insanguinati. Questi stessi feti rossi annunceranno l’imminente fine di Macbeth più avanti, appesi a corde dal soffitto. Mentre Battiston è molto bravo a farci vedere i pentimenti, i moti dell’animo di Macbeth durante i suoi rimorsi, i fantasmi che gli appaiono in sogno, le sue mani insanguinate che non riescono a lasciare i pugnali coi quali ha appena ucciso il re per prenderne il posto, la ricorrente presenza dei bambolotti/bambini e soprattutto il loro martellante pianto riporta a registri più grotteschi ed estranianti. Come nel caso precedente, dove il dramma era interrotto dalle risate degli ubriachi, lo spettatore si trova spaesato, fa fatica a seguire le continue mutazioni di registro emotivo e ritmico. Le parti drammatiche dello spettacolo risultano davvero ben fatte, meno le altre, pur realizzate con effetti scenici e scelte cromatiche di sicuro impatto. In questo anche la tecnologia ha un ruolo importante, con macchine da fumo e luci stroboscopiche che animano una scenografia dinamica e ben strutturata.
La precedente conoscenza della trama senza dubbio aiuta, anche perché lo spettatore non è preso per mano e accompagnato attraverso gli avvenimenti passo dopo passo, ma anzi si cerca di impressionarlo e spiazzarlo, causando un continuo rimescolio emotivo tutto sommato stancante. Anche nel finale, dove Shakespeare fa entrare vittorioso MacDuff con la testa del decapitato Macbeth annunciando Malcolm futuro re, qui viene trasformato in Malcolm che alla vista di Macbeth morto ha un attacco di vomito, un finale alternativo che non si ricollega a nient’altro.
Uno spettacolo che, a parte qualche eccezione, ha avuto dei buoni attori, una scenografia molto azzeccata, delle luci ben curate, un testo originario di sicuro impatto, delle scene molto belle eppure non ha incontrato i gusti del pubblico, tanto che alcuni spettatori sono fuggiti prima della fine delle due ore senza intervallo.
Un’antica leggenda narra che molti attori preferiscano chiamare questa tragedia di Shakespeare “il dramma scozzese”, convinti che pronunciare il nome “Macbeth” in teatro sia di cattivo auspicio…