
Il bello (o il brutto) degli incontri casuali è che persone qualsiasi possono ritrovarsi attratte l’un l’altra senza che questo implichi necessariamente una qualunque compatibilità: un gioco che può essere molto divertente ma anche, a volte, perfino doloroso, o quantomeno fastidioso. Si ritrovano così, il mattino dopo una notte d’occasionale reciproco piacere, un soddisfatto e un po’ imbarazzato Alessandro proprietario di ristorante, cui dà vita carne e sostanza Gianfelice Imparato e una Louise molto più determinata e consapevole scrittrice di racconti per ragazzi, corpo faccia e pensieri di Alessandra D’ambrosio.
La casa in cui si ritrovano, immortalata nel suo tinello borghese un tantino pretenzioso da Francesca Garofalo – sarà la scena su cui vedremo accadere tutto – è di lei, certo laccata e patinata ma un po’ anonima e poco vissuta da rivista d’arredamento, un mobile a giorno sul fondo con due soprammobili/sculture, sul davanti un divano, un tavolinetto con due sedie; ai lati opposti, da un lato la porta dell’appartamento, dall’altra un balcone, unico segno caratteristico due pile verticali di libri, più icone che vere librerie, simboli, certo, di una confidenza con la parola scritta che appartiene naturalmente, per obbligo, alla padrona di casa.
Siamo al Teatro Sannazzaro, alla prima napoletana de La felicità, italico adattamento del francese Le Bonheur, di cui Gianfelice Imparato cura anche la regia: l’Autore è Eric Assous, pluripremiato drammaturgo, sceneggiatore e regista francese, scomparso nel 2020, molto conosciuto in Francia, un po’ meno in Italia, convinto che il successo di un’opera teatrale è soprattutto l’adeguatezza tra il personaggio e l’attore e ovviamente una bella storia che non si esaurisca, che non giri in tondo, con colpi di scena, possibilmente drammatici.
E le sue storie si definiscono così, spesso nel rapporto uomo-donna, col corallario giovane-vecchio – in tutte le possibile declinazioni – in cui l’adulterio fornisce materia per i colpi di scena, sale e il pepe della pietanza, ma senza esagerare, non lasciando mai che per questo il cibo si guasti, lo faccia diventare immangiabile. Anzi.
E ci ritroviamo allora a seguire questa estemporanea coppia nel loro accidentato percorso che suscita molti sorrisi e più di una risata tra il pubblico che gremisce la sala, e certo anche qualche pensiero: li vediamo procedere in un itinerario di cui ci vengono mostrati i momenti più significativi, punti nodali nella loro relazione, quadri che procedono nel tempo con uno sviluppo non deciso dalla cronologia o da qualsivoglia criterio oggettivo, ma piuttosto dal parametro del tutto soggettivo legato all’evolversi del rapporto, coi suoi alti e bassi, il tempo della tenerezza e quello dell’incomprensione, della solidarietà e dell’egoismo.
Veniamo così a sapere, dei due personaggi, tutto quel che c’è da sapere con stesse modalità e nei medesimi tempi con cui lo apprende l’altro, in un rincorrersi di rivelazioni che hanno, certo, il sapore di piccoli coup de théâtre, col carico di stupito divertimento che creano ma, pure, a pensarci, col fardello d’un più o meno pesante rammarico, d’inconfessato e intimo dolore – se non sembrasse parola grossa – che tali brandelli di vita provocano nell’altro, venendo alla luce.
Ora il vostro recensore non vuol certo togliere, a chi vorrà vedere la commedia, il piacere di scoprirli, questi piccoli segreti della vita di ciascuno, che man mano, nel trascorrere dei sei mesi successivi a quel primo incontro, a quella prima notte, si succederanno, dirò solo perciò, della loro relazione e dello scorrere fluido di quel tempo, alcune essenziali caratteristiche: così, Louise è single, Alessandro è nel mezzo di un divorzio, lei non ha figli, lui ne ha tre, lei è un po’ più di sinistra, lui un po’ più di destra, entrambi hanno più di cinquanta anni.
Lui è, come detto, un proprietario di ristorante che non sa tuttavia cosa voglia dire cucinare, vive una vita inseguito dal lavoro, risponde continuamente, sul suo cellulare, alle telefonate di prenotazione dei clienti, finendo per esserne volutamente e masochisticamente perseguitato, protagonista di una gag che fa presto a trasmutare in tormentone; lei scrive racconti per bambini un po’ dolciastri, è in crisi con la sua casa editrice ed in cura da uno psicologo e poi legge anche libri sulla felicità, decaloghi prêt-à-porter scritti dall’intellettuale à la mode che naturalmente consiglierà di leggere anche a lui, allergico, invece, alla parola scritta.
Si troveranno, potremmo dire loro malgrado, a confrontare la loro concezione di felicità – più mediata ed elaborata lei, più apparentemente diretta e semplice lui – e soprattutto cercheranno un modo qualunque di viverlo, quest’amore, visto che, come dice lui a un certo punto, quando devi prendere un treno di giorno e arrivi tardi e lo perdi, non c’è problema, prenderai il successivo, basta aspettare qualche minuto; sul farsi della sera, invece, i treni son sempre più rari, quello che ti passa davanti rischia di essere l’ultimo.
Ma se è terribilmente vera questa riflessione – di fatto i più profondi spunti ad una possibile ricerca in se stessi, pur evaporando immediatamente, vengono essenzialmente dal personaggio di Alessandro, apparentemente il più superficiale, a riprova del risaputo inganno delle parvenze – certo non è piacevole pensare di poter scegliere di stare insieme ad una persona solo per la paura di restar soli: così l’amore che (ri)comincia ad una certa età scopri avere i suoi peculiari risvolti, non è più come quando si è ragazzini, né come quando si progetta un futuro ricco d’incognite ma, pure, di speranze, tutto è più contenuto, commisurato a ciò che resta del giorno, alla residua voglia di vivere, il tempo diventa una variabile da cui dipendono inesorabilmente tutte le altre, meglio di certo un carpe diem sorridente che arrovellarsi in penombra ogni sera.
E poi quegli anni vissuti in più sono il viatico per essere più tolleranti, più amabili e comprensivi verso il prossimo oppure rischiano di diventare la porta aperta ad una chiusa e ferrea intransigenza? Così l’amore, la vita di coppia, rischia di complicarsi terribilmente con gli strascichi dei passati amori, si incrocia pericolosamente con i nuovi e i nuovissimi, considerando pure che il nuovo è spesso più vecchio di quello di prima, in un carosello spesso divertente ma un po’ straniante, in cui è facile perdere la bussola che ci guida sicura: mi veniva in mente, ieri sera, guardando le garbate evoluzioni dei due protagonisti e la leggerezza dell’allure sorridente che le accompagnava, a come sia cambiato il costume in questi anni, a quanto tutto, in fondo, sia molto più fluido e liscio, come dice il solito Alessandro riferendosi ai suoi rapporti con l’ex moglie.
La mutazione antropologica di cui dissertava qualche anno fa Alessandro Baricco, riferendosi ai nuovi barbari, è dunque probabilmente compiuta, lo scivolare in superficie ha preso il posto dell’immersione in profondità, il gioco della sofferenza, fino a pensare che la verità non sia più un punto ma una traiettoria, non dimori dentro le cose, ma si snodi fuori da esse, in un altrove che forse non vale la pena indagare e in cui le parole d’ordine sono semplificazione, velocità, medietà.
In fondo, alla fine, Louise ed Alessandro li incrociamo tutti i giorni, vivono con noi, la loro ricerca della felicità – è un diritto, la felicità(?) – è anche il nostro, e pure gli applausi, convinti, al riaccendersi delle luci dopo il classico calar della tela, non cancellano del tutto la sensazione del cruccio lieve che non si scioglie, che permane quando ti alzi per avviarti all’uscita, che provi a descrivere a te stesso come scrupolo sottile, umbratile sentire leggero e irrisolto di (ri)scoprire con sorpresa – ma in fondo, via, l’hai sempre saputo! – se non nel dato biografico, nell’urgenza, invece, dei meccanismi archetipi del tuo io, l’Alessandro che c’è in te e che sempre più si fa strada, man mano che la sera trascolora in notte.