
[rating=3] L’inizio è promettente, qui al Mercadante di Napoli, per questa Casa di bambola nell’adattamento illustre di Raffaele La Capria e la regia di Claudio Di Palma: l’alzarsi del sipario rivela prima d’ogni altra cosa una piattaforma fortemente inclinata, il salotto di casa Helmer, il cuore stesso dell’ideale borghese, poltrone sedie tavolo, scena scarnita ed eletta, al tempo stesso, a simbolo dell’intero dramma; intorno, stai a supporre il resto delle stanze e infine l’esterno della casa, il mondo tutto, in definitiva, buio uniforme che sa di sbigottito silenzio – ti viene in mente improvvisa una poesia di Pavese – da cui emergeranno a tratti – il tempo della battuta loro – per poi esser di nuovo inghiottiti dal nulla, i personaggi del dramma, che entreranno nel nevrotico Regno di Nora come pedine al momento opportuno, a far la sortita loro: ora, all’inizio, prima che tutto cominci, sono lì, disposti tutti intorno alla piattaforma – li vedi grazie alla complicità dei riflettori che, solo adesso, permettono loro d’esser visti – ad attender l’entrata in scena. In alto, poi, oltre e sopra il salotto, in quella zona che – ce ne renderemo conto più tardi – talvolta è proiezione dei pensieri di Nora, talaltra il mondo iperuranio delle idee e dei simboli, uno (spoglio) abete natalizio occupa da solo, messo lì in un canto, l’attesa allegorica dei conflitti che avverranno; ancor più su, troneggia un prezioso e sontuoso lampadario, tronfia metafora, nelle sue false luci, dell’inelegante ricchezza borghese d’un matrimonio (la discesa del lampadario dirà la parola fine al dramma) che si regge solo sull’apparenza d’una gonfia allegria.
Poi rimane solo l’occhio di bue su Nora, interpretata da Gaia Aprea, personaggio-simbolo di cui fatica a morire l’interpretazione “protofemminista” che normalmente se ne dà, e pure questa scelta registica e interpretativa non sfugge alla regola; al di là, infatti, delle dichiarazioni del regista, circa una problematica esegesi delle scelte di Nora, che si vuole in bilico tra libertà ed egoismo, lasciando intendere una malcelata condanna per l’abbandono dei figli da parte della donna (come non può non venirti in mente che i figli so’ piezz’e core?), la Nora che ci regala l’attrice è, tutto sommato, il classico personaggio che ben conosciamo, benché vesta moderni abiti secondo novecento, una recitazione realistica per un personaggio che cambia visibilmente tono nel corso della rappresentazione: dalla moglie-bambina dei saltelli e dell’esagerato buonumore, tutta amaretti proibiti e vezzeggiativi, dai movimenti rapidi e aggraziati, si passerà, attraversando la sgraziata tarantella isterica e scomposta, all’espressione spenta e buia della seconda parte, nella rigidità dei movimenti sempre più lenti e trascinati e rassegnati, che culminano nel monologo finale, d’accettazione dolorosa pur in una sorta di fierezza d’aver compiuto il passo necessario verso una libertà conquistata a caro prezzo.
Tuttavia siamo ben lontani, non saprei dire se purtroppo o per fortuna, dalla Nora-Antigone che, soprattutto nelle intenzioni di Raffaele La Capria, si andava prefigurando alla vigilia, di un’interpretazione che facesse assurgere il personaggio a classico simbolo della libertà e della prevalenza delle leggi della coscienza sulle leggi degli uomini: se questo c’era, confesso di non averlo notato, lasciato nelle intenzioni ma non tradotto in scena: m’è sembrato di assistere, invece, ad una Casa di bambola situata, grosso modo, nella “norma”, con tutto quel di positivo e negativo che il termine si porta appresso, pur nell’evidente contrasto – e forse contraddizione – tra l’ambientazione stilizzata e l’abbondanza di simboli che la caratterizzano e, invece, la recitazione in tutto naturalistica, non solo per il personaggio di Nora, ma per tutta la rosa dei comprimari.
Così, pure il Torvald di Claudio Di Palma, è l’avvocato un po’ serioso che siamo abituati a conoscere, borghese fino al midollo, devoto alla religione del lavoro come non mai, che perde il lume degli occhi solo di fronte alla prospettiva di perdere prestigio, onore, posizione sociale: personaggio ibseniano per eccellenza, che si muove tra ipocrisia e presunto perbenismo, alla fine riesce a suscitare perfino un po’ di compassione, così disarmato di fronte alla determinazione della (ormai) ex moglie.
Il dottor Rank di Giacinto Palmarini presenta invece qualche originalità rispetto al sereno e distaccato medico saggio della tradizione, che accetta una consapevole morte: incarnazione di un altro possibile modo d’interpretare lo spirito borghese, sfatto, trascurato, lascia che la malattia lo roda, perso nella disperata ricerca di un rapporto – anche fisico – con Nora che, nel mentre progressivamente dirada, fino a escluderlo del tutto, il contatto col marito, ricercherà invece sempre più quello con gli amici.
La Kristine di Autilia Ranieri è, come previsto, alter ego di Nora, severa nel modo di vestire e di atteggiarsi, dal tono della voce morbido e avvolgente ma rigida e apparentemente fredda nei modi; insieme con il Krogstad di Paolo Serra è comunque protagonista, nell’unica scena in cui non è presente Nora, del dialogo chiarificatore che sarà risolutivo del loro destino, da un lato, della risoluzione del matrimonio di Nora e Torvald, dall’altro, non a caso collocata nella parte alta del palcoscenico, come già detto dedicata ai simboli, ai sogni e ai desideri: scena recitata, al contrario di tutto il resto della pièce, con tono decisamente antirealistico, dall’accentuata e insistita freddezza emotiva, che la porta ad assumere, per questo motivo, sorprendentemente, quasi il valore e la portata di visione onirica e distaccata, straniata parentesi (sur)reale che, pur stridendo vivacemente col recitar dell’altre scene, s’accorda invece col contesto, la scenografia e le luci. Guizzo indicatore – penso – d’una probabile diversa intenzione di regia, non esplorata fino in fondo nelle sue potenzialità, che, magari, con maggior coraggio, avrebbe sottratto quest’allestimento dalla media un po’ grigia per colorarlo d’interesse senz’altro più alto e diverso.