“Il caso Braibanti” di Palmese e Marini non spicca il volo

[rating=2] Coppia Palmese-Marini, il primo scrittore prezzolato, l’altro regista acclamato, portano in scena al teatro dei Conciatori di Roma ne “Il caso Braibanti”, uno scenario urbano perfetto, il racconto di un uomo che negli anni ’60 fu messo sotto accusa niente di meno che dallo Stato della Repubblica allora democristiana italiana per aver “deviato” un giovane sulla via dell’omosessualità.

Aldo Braibanti era stato un partigiano, poi un attivista, un animatore culturale ed infine uno scrittore, amava le formiche e si occupava di teatro, aveva collaborato fra gli altri con Carmelo Bene, Sylvano Bussotti, i fratelli Bellocchio. Un ometto qualunque a vederlo così, sprofondato dietro quei suoi spessi occhialoni neri, quello che in aula non voleva farsi chiamare “professore” perché non aveva mai insegnato, quello “brutto” per la famiglia Sanfelice, che lo trascinò in tribunale con l’accusa di aver manipolato il figliol non proprio prodigo Giovanni, quasi che il fatto di non esser esteticamente accettabile per i parametri di quel nucleo famigliare definito dallo stesso Braibanti “puritano e fascista”, dovesse perfino rappresentare un’aggravante.

Il caso unico di condanna per plagio in un Belpaese in pieno miracolo economico, Braibanti scontò sei anni di carcere per aver semplicemente intrattenuto una relazione “più che amicale” col giovane Giovanni Sanfelice, che pure lo ricambiava stimandone il calibro intellettuale, ma allora fra i banchi del tribunale la purezza di quel sentimento non aveva avuto peso, così come inascoltate erano rimaste le voci di grandi esponenti della cultura quali Pasolini, Moravia, Eco che sdegnosi impressero su carta le più amare parole mai scritte a favore di un uomo unicamente colpevole d’amore.

Un caso italiano che oggi in pochi ricordano, una delle più infami ingiustizie di un’Italietta per bene che lascia però il cuore altrove. Eh sì perché nonostante la bravura di Mauro Conte (Giovanni), due o tre spanne sopra Fabio Bussotti nei panni di un insipidissimo Braibanti, la pièce non prende il volo, non smuove gli animi, non emoziona.

Due sedie, un interrogatorio, pregevoli musiche dal vivo di Maure Verrone ma nulla più, la bella operazione sociologica di recupero di un pezzo di memoria storica fin troppo utile a scavarci nel profondo e doverosamente pronta ad insegnarci qualcosa, si perde nel nulla. “Il caso Braibanti” serba una potenza di scossa pari a Tangentopoli, alle Idi di marzo, alla battaglia delle Termopili, ma sulla scura scena del Conciatori Palmese e Marini non lasciano il segno.

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