
[rating=3] Le piccole particelle di polvere, intrise di incenso, sorvolano l’aria spinte dalle vibrazioni dei sermoni del prete fino a depositarsi sulle panche, sull’altare, sulla testa delle penitenti anime nel confessionale e sull’impermeabile marrone del sacrestano, intento a pulire col suo piumino di struzzo. L’uomo, non esattamente una mente superiore, senza una mano e per giunta zoppo, “non è stato baciato da madre natura, anzi l’ha schifato proprio!”. La gara di solidarietà per fargli ottenere il posto di sacrestano gli da la possibilità di ascoltare le vicende che quotidianamente il prete di Pozzuoli deve affrontare nell’esercizio delle sue funzioni ma soprattutto oltre: legge le lettere a chi è analfabeta, consiglia i fedeli su come migliorare la propria esistenza e li redarguisce quando compiono peccati o avventatezze. Ricorda molto il “Don Camillo e Peppone” di Guareschi senza però la figura di Peppone lo spettacolo “Grisù, Giuseppe e Maria” al Duse di Bologna, con Paolo Triestino e Nicola Pistoia.
Si respirano a più riprese gli anni ’50, con le figure del prete e del farmacista che rappresentano le autorità in paese, con il telefono che sta facendo la sua timida comparsa per ora solo in chiesa, con il tipico bigottismo da mancanza di stimoli esterni diversi da quelli clericali. Persino l’umorismo è ambientato in quei tempi: si basa prevalentemente sull’esagerazione e talvolta la ripetizione con enfasi delle battute, mantenendo un grado di “purezza” a cui non siamo più abituati, non una parolaccia. Le vicende trattate sono riconducibili a casi di miseria ma soprattutto di infedeltà che vengono risolte puntualmente dall’intervento del prete, che con i suoi intrighi, talvolta al limite della legalità (e non solo di quella ecclesiastica), riesce a preservare l’onorabilità delle persone coinvolte ed a salvarle.
Lo squarcio di società napoletana che vediamo ha già molte caratteristiche attuali, sebbene siano appena nate o ancora embrionali: l’unica possibilità di rivarsa è sperare che uno dei propri figli diventi calciatore e quando si devono chiedere dei favori, “se alle prossime elezioni vi ricordate di lui, ve ne sarebbe grato”. Voto di scambio? Che brutta parola, mutuo aiuto fra persone onorevoli. Il finale, troppo “contemporaneo” anche se divertente, non si incastona bene nel tessuto storico fino a lì intrecciato, che ha come sfondo un fatto tragico realmente avvenuto nel 1956: la strage di Marcinelle in Belgio, dove un’esplosione in una cava di carbone provocò 262 morti.
E’ interessante vedere due romani DOC cimentarsi con il dialetto napoletano, anche se talvolta il sacrestano Pistoia si prende qualche “licenza poetica”. D’altra parte la fatica compiuta da Triestino ripaga sicuramente, infatti, come dirà in un’intervista, “se entri nei loro suoni entri anche nella loro anima”. Il suo napoletano si sposa bene con la figura del prete, e la recitazione di buon livello è contenuta e godibile. Avendolo visto nei panni del bielorusso dello spettacolo Ben Hur, non avevamo dubbi di ritrovare la medesima precisione di dizione, movenze ed intenzioni. Pistoia caratterizza molto il sacrestano e si avvicina di più alla macchietta, salvandosi forse solo per i movimenti precisi che da al personaggio, veri e non caricaturali. Le urla e le stereotipate sceneggiate napoletane del resto del cast sembrano un po’ sopra le righe a chi non è abituato al genere.