
Era il lontano 2013 e a Roma, dopo il debutto assoluto a Novara, spuntava in calendario la prima nazionale di Farà giorno. Il testo di Rosa Menduni e Roberto De Giorgi era diretto da Pietro Maccarinelli e il ruolo del protagonista era affidato a Gianrico Tedeschi. Da quella sera di scroscianti applausi alla quale ho avuto il piacere di assistere, questa piccola perla d’autore è rimasta incastrata nelle mie sinapsi. Grazie alla fortuna e alla bellezza della pièce, negli anni è stata ripresa spesso divenendo un “long-seller” a teatro. Dopo dieci anni torno a rivederlo, questa volta al Teatro Parioli, con Antonello Fassari nel ruolo che fu di Tedeschi, scomparso nel 2020.
La storia dall’incastro geniale, mette in relazione un vecchio partigiano, Renato (Antonello Fassari), con un giovane fascistello di quartiere, Manuel (Alberto Onofrietti), che gli provoca maldestramente la rottura di un arto, durante un parcheggio. È la serendipitosa occasione d’incontro di due mondi, due realtà lontane nella generazione e nella cultura. Renato, ormai solo da tempo, accetta di non denunciare il ragazzo in cambio di assistenza, finché non si sarà rimesso. Dopo un incipit burrascoso, fra i due nascerà una tenera amicizia, sugellata anche dal ritorno a Roma di Aurora (Alvia Reale), figlia di Renato, donna con un passato oscuro nella lotta armata e oggi medico volontario.
Al duopolio rosso-nero con tutto il loro carico di ideologie più o meno consapevoli, si aggiunge così un terzo polo identitario, “tre avanzi di galera” come dice Renato, ma in fondo solo pezzi sparsi e infine ricongiunti di una famiglia ritrovata. La drammaturgia di questo pezzo è scintillante e piena di potenziali spunti interpretativi. C’è il dramma, la battuta, l’archetipo padri-figli e perfino un affaccio di meta-letteratura. È infatti un romanzo in qualche modo a segnare un passaggio di consegne: “Guerra e Pace” di Tolstoj. È proprio attraverso il regalo di questo libro che Renato offrirà a Manuel l’opportunità di riallacciare i fili sparsi di un processo identitario a volte difficile, specie in gioventù.
La regia di Maccarinelli dal canto suo regala a questa splendida opera teatrale, una giusta legittimazione sulla scena, con un delicato passaggio di quadri scanditi da una grande lampada dalla luce ocra che rimanda allo scorrere dei giorni, dentro un interno casalingo dai toni caldi del legno dei mobili di un tempo. La triade recitativa di Reale-Fassari-Onofrietti non è da meno, tre gemme da palco, ciascuno perfettamente calato nella parte: la schiva e risoluta Aurora, il dolce Renato e infine Manuel, il perno su cui si apre la parabola narrativa e si compie il viaggio dell’eroe.

Onofrietti lavora sulla voce in modo eccellente, ricreando una calata romana che sfida l’orecchio dei nativi capitolini, quasi impossibile credere che venga da Milano! Ma merita una menzione speciale anche per la presenza scenica e il raccordo che riesce a creare fra Reale e Fassari. Quest’ultimo raccoglie un’eredità pesante, quella di Gianrico Tedeschi, al quale i più aficionados della pièce riescono con fatica a staccarsi, ma lo fa dopotutto in modo efficace, ricreando i tempi sul suo ritmo di collaudatissimo attore televisivo.
In generale lo spettacolo regge, solo di quando in quando sembra perdere di intensità e forse il turning point fra in Manuel bullo dell’incipit e il ragazzo finalmente consapevole del finale ne risente un po’, ma non dal punto di vista recitativo, è mera questione di crescita interna del plot. Forse è solo l’ombra della prima e col passare delle repliche verrà asciugata.
Resta in ogni caso la fascinazione di una storia meravigliosa, con un’inossidabile sospensione d’incredulità, che riesce a colpire sia lo spettatore più allenato alla prosa che quello meno avvezzo. Farà giorno offre una sintesi straordinaria di esperienze umane perfettamente riconoscibili su piccola e grande scala. La forza e la longevità del pezzo stanno forse proprio in questo, allorché, nello spaccato di un interno al terzo piano di una Roma dei primi duemila, possono convivere tanto le istanze gramsciane quanto il poster di Totti, in un sorprendente quanto folgorante dialogo.
Fra i palchi cittadini sempre più spesso si vedono opere che giustamente vogliono raccontare la realtà del nostro tempo, altrettanto spesso però risucchiate da ermetismi di teatranti per teatranti. Raccontare storie aldilà della cronicità è invece uno dei pilastri su cui a mio avviso si regge da secoli il teatro, in grado di farci specchiare fra le assi del palcoscenico anche raccontando esperienze “vecchie” duemila o vent’anni. Un segreto non tato segreto che vedo sfuggire ai più, non a questa pièce, che in un’ora e mezza ci dice tutto di noi stessi, di come ci vediamo, dell’altro che ci osserva e di quello che possiamo diventare. Un piccolo capolavoro che merita il suo successo e che dovrebbe ispirare sempre più le nuove schiere creative. Bravi!