
L’atmosfera da bazaar, con il thé offerto al pubblico, scalda gli animi precedentemente infreddoliti in fila al Funaro di Pistoia per assistere ad Aladino di Matej Forman. Un appuntamento, inizialmente con due date, che velocemente si è moltiplicato nel piccolo e fervido centro culturale toscano, tante sono state le richieste da parte degli spettatori. Uno spettacolo non solo dedicato ai bambini. Per gustare attimi di visioni e atmosfere vivide, quasi tuttavia uscite da un sogno dell’infanzia, anche gli adulti fremono, incanalati come sono, ogni giorno, in altri ritmi, altre abitudini.
La risonanza della scenografia, evocante il mondo arabo e ancestrale de Le mille e una notte – di colori soffusi, lampade, grate e finestre – si scontra con le creature costruite dalla mente visionaria dei Forman. Il mago gigante, mostruoso, dalla maschera paurosa, che spaventa ed esalta i bambini, è il simbolo del terrore che suscita una fiaba, della tipica immersione in un’incredulità che è anche catartica.
Le sorprese più eclatanti sono un cammello il cui ventre si apre per divenire una grotta, dove Aladino trova la famosa lampada; e l’elefante, che si trasforma in reggia dove avviene il matrimonio tra Aladino e la principessa. Magistrale la lotta con il mago, un rallenty teso e suadente, che termina con la testa fumante dello sconfitto. Il teatro d’ombre completa la sinergia tra i registri, come una cornice in cui è inserita la leggenda di Sherazad, miniaturizzata in due figurine nere e in controluce, mosse freneticamente. Belle le fattezze delle marionette, anche se animate non con un’estrema cura e delicatezza.
Quest’insieme di forti forme e sensazioni rende Aladino un’opera piacevole, pur resa monocorde dalla narrazione (senza dubbio ben fatta) di Massimo Grigò, che però sembra interrompere il puro piacere non-verbale dell’opera. Insomma, la parola ha un peso specifico diverso rispetto all’immaginario visivo, e il contrasto stride.