Tre sfumature di mascolinità per Una casa di bambola

Al Teatro Bellini di Napoli fino al 26 febbraio Andrée Ruth Shammah mette in scena, con Marina Rocco e Filippo Timi, Una casa di Bambola di Henrik Ibsen

Cominciamo dalla fine. Nora e Torvald non hanno più nulla da dirsi, la casa di bambola, dorata prigione tutta merletti frizzi e dolci non esiste più, crollata sotto il peso delle bugie, delle illusioni, dei reciproci inconfessati egoismi. Vestita di tutto punto, valigie in mano, Nora lascia casa marito figli e palcoscenico – rompere la quarta parete, entrando e uscendo continuamente, è un po’ la cifra di questa regia – avviandosi verso l’uscita laterale della platea: il gesto è così eclatante che il pubblico sottolinea con un applauso l’uscita trionfale di scena di Nora, sottraendo, di fatto, gran parte dell’effetto all’autentico finale: l’ultima parola, in Ibsen come in questa messa in scena, tocca a Torvald, rimasto solo al centro del palcoscenico: “E’ andata….”, dice, e poi: “… solo…” mentre una luce bianca lo illumina violentemente dall’alto per poi spegnersi lentissimamente, nel sopravvenuto gelo invernale. Le parole son quelle di Ibsen, il tono è però del tutto nuovo e segna la vera originalità di questa regia: normalmente avremmo avvertito, nello sgomento rivelarsi della solitudine di Torvald, disperazione, rabbia, sorpresa; si scopre, invece, il marito, sottilmente incuriosito dalla nuova condizione in cui si trova, inventando(si) un tono d’incerto, non confessato, contrastato e sotterraneo sollievo, che segna ineludibile il passaggio, forse, verso una nuova, possibile consapevolezza di sé, sicuramente alla volta di riacquistata e riscattata ricerca di senso, pur nella notte buia e gelida della solitudine, come uno sfigato Aeroman, lethemiano supereroe del dubbioso contemporaneo. Questo testo, che circa 140 anni fa fu salutato – e molto più spesso deprecato – a mo’ di discusso ed esaltante manifesto di un femminismo nascente – pur con tutte le riserve e i distinguo d’obbligo, prima di tutti dell’Autore – si rivela, evidentemente, ancora oggi, portatore d’una qualche verità apprezzabile anche dalla nostra contemporaneità, al di là e oltre qualsivoglia archeologica passione. Perché il secolo che passa, se da un lato ha fatto diventar decrepite le rivendicazioni donnesche, dall’altro ha portato in primo piano, invece, ahimé, le ansie e le debolezze del fu sesso forte, non più trincerato dietro la presunta santità d’intoccabili istituti, prima fra tutti la famiglia, dagli intangibili riti agli indiscussi dogmi, fortezza della solitudine ormai in disuso.

Potrebbe perfino, questa Una casa di bambola – scritta proprio così, con l’articolo indeterminativo, a indicarne, chissà, la generalità della situazione, rincorrendo una indefinita archetipicità (non può non venirti in mente, per contrasto, l’asserita unicità tolstoiana dell’infelicità familiare), se non riflettesse, invece, sottolineare puntiglioso l’originale ortografia ibseniana – che la regista Andrée Ruth Shammah mette in scena qui al Teatro Bellini di Napoli, riaccendere le discussioni che sul finire del secolo romantico tanto infiammarono gli scandinavi borghesi e luterani sì da indurre, ad evitare ormai uggioso disputare e odioso e moraleggiante discettare, ad esplicitamente vietare di discuter della commedia nei cartoncini d’invito ai salotti delle famiglie di quelle parti. Segno, come concludeva il nostro don Benedetto Croce, di quanto sia difficile, anzi, impossibile districarsi nel dilemma morale sollevato: “Chi ha ragione in Casa di bambola? Il marito? Ma è un egoista. La moglie? Ma non ha senso morale. Chi ha torto? Il marito? Ma è rispettoso della legge e dell’onore. La moglie? Ma ha voluto salvare il marito dalla malattia e dalla morte…”. Ben venga, dunque chi riesce a metter in scena, magari attualizzando il testo, magari modernamente ricorrendo alla versione aggiornata d’un pirandelliano umorismo che aiuta a scoprire i nascosti meccanismi d’un ben oliato congegno teatrale, qualcosa che in definitiva può, ancor oggi, provocare pensieri, perfino, chissà, tentare di metterci in crisi come quasi centocinquant’anni fa. In fondo, poi, sparigliando le carte, d’un sottotesto di forza eguale e contraria ne han parlato in tanti, in tempi non sospetti, a cominciare da quel ragazzaccio di Groddeck che così ben sapeva trovare tracce d’aliene forme in gesti d’apparenza comune e scontata, riflesso d’incomprensibili pulsioni e inconfessati istinti.

Così il testo scelto dalla regista, incalzante, asciutto pur nelle parti volutamente leziose, sfrondato di antiquati barocchismi, è il risultato del confronto tra le più accreditate traduzioni, dalle più vetuste di Maurice Pozor in francese e d’Anita Rho a quelle più recenti di McGiuness  e d’Alonge: ne esce un dialogare serrato e franco che appoggia l’intera architettura su alcune parole che diventano chiave di comprensione e di volta dell’intera struttura; così è per il “segreto” da non dirsi mai o per la “cosa meravigliosa” dell’aspettativa del sogno di Nora, che caricano d’attesa e di tensione il divenire del dramma senza tuttavia risolversi, rimandando a un indefinito tempo e spazio il conclusivo compiersi dei desideri, siano essi espressi o, più frequentemente, inespressi. La scena disegnata da Gianmaurizio Fercioni restituisce, se si riesce a vincere il senso di leziosità rosa confetto che trasmette a prima pelle, il significato, con pareti mobili e traslucide, d’una trappola per topi, labirinto sperimentale dove s’incrociano pavloviani sguardi a saggiar riflessi e condizionamenti, giochi a nascondino ed altri scaltri attrezzi che l’arte familiare riesce ad ingegnarsi a escogitare, in un simmetrico, pulito, nitido crescendo – che si riflette nei perfetti costumi di Fabio Zambernardi, eleganti senza fronzoli, sobri come la borghesia il cui ideale riflettono, dai caldi toni pastello: il tutto è messo in evidenza pure dalle luci di Gigi Saccomandi che via via si fanno più crude, incattiviscono man mano che il dipanarsi tocca nervi scoperti, spezza antiche evidenze, comodi altarini, immagini rassicuranti di famiglie felici (anzi allegre, come dirà l’ultima Nora). Sul fondo, tuttavia, la porta sull’inverno è incrinatura nel vaso di Pandora al contrario, oscuro Maelström dell’approdo dei pensieri e dei problemi, esatto contrario dell’analoga heinleiniana porta, fonte d’opportunità e felicità, come a riprova ulteriore di come ogni difficoltà covi nel fondo di sé un’opportunità.

La Nora di Marina Rocco si muove tra toni furbescamente scaltri e sagaci maliziosità, nutrendosi d’una bionda femminilità gustosamente seducente; il physique du rôle certo in questo l’aiuta e riesce a cavarla d’impaccio in più d’una occasione: più volte, tuttavia, pure nella seconda parte, dove invece dovrebbe esser più evidente la metamorfosi del personaggio, eccede un po’ troppo in leziosità che, pur volendo attribuire ai nemmen troppo nascosti secondi fini, alla fin fine diventano stucchevoli, e ch’io sia perdonato per l’apparente lapalissianità del concetto che esprimo, d’attrice, cioè, che bamboleggia in Casa di bambola, ma quel che voglio dire è che si fatica a trovare autentica la sua trasformazione, percependo chi siede in platea capriccio più che sdegno, cruccio più che dolore, orgoglio più che dignità. La regista chiama poi, a sottolineare l’analisi sulla mascolinità che dichiara di voler effettuare, Filippo Timi a interpretare i tre ruoli maschili, sottintendendo essere null’altro che tre facce dello stesso genio mascolino, tre doppi dell’unico archetipo discendente d’Adamo, e come lui gravati d’un peccato originale, il primo d’una colpa paterna che lo condurrà alla tomba, il secondo autore egli stesso del suo peccato, infrangendo la legge, il terzo colpevole d’aver coperto gli illeciti del suocero. Così, volutamente, il passaggio dall’uno all’altro personaggio avviene in fondo senza soluzione di continuità, son solo tre sfumature di mascolinità che di poco differiscono: basta un collare, una sciarpa diversamente annodata, un bastone, un cappello. L’impresa viene affrontata da Timi con la necessaria professionalità, sembrando perfino un po’ ingessato nei molteplici panni del luterano, grigio, eterno borghese, magari più nella prima che nella seconda parte, dove spesso, invece, il genio dell’istrione esonda e deborda. Ottimi i comprimari, si segnala la classicissima Christine Linde di Mariella Valentini, perfetto pendant di Nora, e Andrea Soffiantini, godibilissima vecchia balia en travesti, dispensatore d’immancabili frasi fatte adatte a tutte le situazioni. Molti gli applausi alla fine, da parte di un pubblico attento e partecipe, che ben sembra gustare fino in fondo, nonostante l’ora tarda, il dramma e la sua evoluzione.