Dolore sotto chiave: da Eduardo a Saponaro

[rating=3] Scena immersa nel buio, un attore che attraversa la platea illuminato dalla candela che sorregge. Qualche battuta in napoletano, un tavolo con sedie e due porte parallele a forma di bara. Tutto qui. Ma già si capisce quanto Pirandello ci sia in questa rappresentazione di Dolore sotto chiave, atto unico portato in scena da Eduardo De Filippo nel 1964 e oggi riproposto per la scena da Teatri Uniti e diretto da Francesco Saponaro per il Piccolo Teatro.
L’opera nasce come radiodramma nel 1958, con Eduardo e la sorella Titina nel ruolo dei protagonisti, i fratelli Rocco e Lucia Capasso. Successivamente sarà portato in scena due volte dallo stesso autore napoletano, nel 1964 con Franco Parenti e Regina Bianchi, nel 1980 con Luca De Filippo e Angelica Ippolito. Nella commedia, Lucia nasconde al fratello Rocco, lontano da Napoli per motivi di lavoro, la morte della moglie Elena, molto malata, temendo che per il dolore Rocco possa fare una pazzia. La reazione di Rocco nell’apprendere la verità genera una girandola di situazioni grottesche, dal risvolto decisamente comico. Ma si tratta sempre di quel “riso amaro”, di quell’ironia tragica che ha fatto di Eduardo – e prima di lui di Pirandello – un maestro ammirato e celebrato in tutto il mondo. Dietro la risata, si cela l’agonia esistenziale degli “inetti”, il dolore pirandelliano di quelli che non riescono ad arginare il malessere di vivere. E che non sopportano il peso e la presenza costante della morte.A prologo di tutto, si diceva, una “scenetta” al buio. Per rimarcare – qualora ce ne fosse ancora bisogno – la linea Pirandello – De Filippo, il regista ha deciso di inaugurare il suo spettacolo con la rappresentazione dell’adattamento in versi e in lingua napoletana della novella I pensionati della memoria, scritta dall’autore siciliano nel 1914. Qui la lingua eduardiana si fa più napoletana che teatrale (nel senso di “universale”), con la figura dello ‘schiattamuorto’ da antologia eduardiana che rappresenta la verità feroce e taciuta di ogni vita umana. L’interpretazione del becchino Giampiero Schiano esalta la purezza linguistica di un testo così ben adattato che riesce a trasfigurare il volto con la fonesi. I termini in dialetto sono come schiaffi che piombano sugli spettatori come lampi nel buio, per un prologo che sottolinea già la linea della fedeltà alla linea De Filippo – Pirandello.

Dolore sotto chiave

Dolore sotto chiave nasce come radiodramma, è vero. E per questo è pieno di parole e di descrizioni. Ma solo sulla carta, perché sul palco basta davvero poco per “significare” la scena con un apparato essenziale, evocativo. Probabilmente se avesse deciso di interpretare lui stesso il protagonista, Eduardo avrebbe modificato profondamente il testo adattandolo per la rappresentazione e “contaminandolo” della sua poetica dei silenzi. Ma l’opera di Saponaro 

ha scelto la via del verbale, del fiume discorsivo. Una scelta assolutamente coerente. L’equazione è servita: la morte si nasconde nella vita come la menzogna nella famiglia. Gli oggetti di scena, poi, sono “vivi”. Tutti: dal telefono “a muro”, il tavolo centrale e perfino il piatto che Rocco rompe letteralmente a due passi dal pubblico, con il rischio tutt’altro che leggero di ferire qualcuno. Ma il teatro è passione e dolore, molto poco “sotto chiave”.

Le maschere sulla scena sono più che mai evocative dello spirito di Eduardo; si pensi alla sorella allucinata – interpretata magistralmente da Luciano Saltarelli -, diretta emanazione della Carmela di Questi fantasmi. La recitazione di Tony Laudadio nei panni del protagonista Rocco è esemplare, vivace, sostenuta. Unica pecca, forse, è stata la continua ricerca di mimesi degli exploit eduardiani, dai silenzi alle movenze, passando per la classica postura “obliqua” di spalle sulla sedia. In questo senso i riferimenti trasversali alle altre opere di Eduardo sono evidenti: da Le voci di dentro a Mia famiglia, da Questi fantasmi a Gli esami non finiscono mai. Ma anche ad altri esponenti della cultura performativa napoletana, come Massimo Troisi: lampante nella “gara alla preghiera” tra Rocco e Lucia il rimando allo sketch di “San Gennaro” nella Smorfia. “In Dolore sotto chiave – spiega Saponaro – buoni sentimenti come la carità cristiana, la compassione o la mania borghese della beneficenza diventano armi improprie per dissimulare, negli affetti, quella segreta predisposizione dell’essere umano al controllo e al dominio sull’altro”. Il dolore si possiede, è un diritto dell’individuo che “lo accetta ancor prima di venire al mondo”. Un destino ineffabile che che corrisponde alla più partenopea delle difese: “‘nzerr chella port'” – con esplicito riferimento a una battuta di Uomo e Galantuomo, una delle primissime commedie scritte da Eduardo.

Dolore sotto chiave

Dopo Dolore sotto chiave è andato in scena anche Pericolosamente, altro atto unico eudardiano facente parte però della Cantata dei Giorni Pari. Gli interpreti sono gli stessi, la scenografia anche: è bastato “murare” le porte-loculo con delle pareti di un bianco opaco e “borghese”, quasi anonimo. “Scritto nel 1938 – spiega Saponaro – Pericolosamente ruota attorno a una rivoltella, vero e proprio strumento di tortura coniugale e rimedio alle bizzarrie improvvise di una moglie bisbetica. L’atto unico, dall’apparente fulmineità di uno sketch, grande successo del Teatro Umoristico dei De Filippo, gioca tutto sul classico litigio coniugale. Ogni volta che Dorotea dà sfogo alle sue intemperanze, Arturo, per ripristinare l’ordine familiare, impugna la rivoltella caricata a salve e le spara, scatenando la comica reazione di terrore da parte dell’ignaro amico Michele appena rientrato a Napoli da un lungo viaggio di lavoro”. La rivoltella come il bastone di Pulcinella, dunque: elemento risolutore della messinscena sempre pronto a rinsavire la moglie capricciosa e bisbetica. Nel 1965 la commedia divenne la sceneggiatura dell’episodio L’ora di puntadel film Oggi, domani e dopodomani, in cui Eduardo diresse Marcello Mastroianni, Luciano Salce e Virna Lisi.

La regia di Francesco Saponaro si conferma intensamente eduardiana, dedita alla farsa e al lazzo e, oltre il comico, al grottesco.

Il prossimo 31 ottobre ricorreranno i primi 30 anni dalla morte di Eduardo De Filippo. Era un tipo preciso, lui: era nato nel 1900. Aveva 84 anni quando se n’è andato, forse con lo stesso sorriso pungente e sornione che il “suo” Guglielmo Speranza sfoggia nel finale de “Gli esami non finiscono mai”. La messinscena di Dolore sotto chiave al Teatro Studio Melato – e prima ancora al Napoli Teatro Festival del luglio 2014 – vuole rendere a suo modo omaggio a quello che è stato forse il più grande teatrante del Novecento. A Napoli, intanto, sono pronti a ricordarlo con tutti i crismi: riallestiranno, infatti, il suo camerino originale in quello che fu il “suo” teatro, il San Ferdinando. Ma la risposta di Milano è pronta. Dopo Dolore sotto chiave, sarà la volta de Le voci di dentro con Toni Servillo (dal 7 novembre allo Strehler) e Sogno di una notte di mezza sbornia con la compagnia del figlio, Luca De Filippo (dal 12 dicembre al Franco Parenti). Trent’anni (mai) senza Eduardo.

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