Con “Le belle notti” il ’68 torna in scena nella commedia degli ideali perduti

Padri e figli protagonisti al Teatro della Cometa fino all' 8 gennaio

I protagonisti

Le belle notti”, un testo pensato e scritto nel 2007 da Gianni Clementi, è un vero e proprio tuffo nostalgico nel passato….non manca proprio nulla di quegli anni: oltre al glorioso ciclomotore Ciao ed ai pantaloni rigorosamente a zampa d’elefante c’è, appunto, il luogo dove si svolge l’azione, il liceo romano Dante Alighieri che è stato occupato, ci sono i celerini che circondano l’istituto pronti ad intervenire con caschi e scudi e c’è un gruppo di studenti animati dal forte desiderio di cambiamento e dalla volontà di riforma del sistema scolastico, tutti  mossi da ideali, forse più grandi di loro, come l’autodeterminazione o la volontà di sdoganarsi dal conservatorismo culturale della classe sociale dominante rappresentata dai professori e dai genitori.

E’ il 12 dicembre 1969, primo giorno di occupazione, e bisogna organizzare tutto per filo e per segno, quindi gli studenti si dividono i compiti: chi fa la guardia , chi cucina per tutti, (anche se hanno a disposizione solo pacchi di pasta, casse di pelati e barattoli di pesche sciroppate), chi fa col ciclostile le copie dei volantini  da distribuire, chi si occupa decisamente controvoglia della pulizia dei bagni, ma c’è anche qualche “disimpegnato” che strimpella la chitarra o  fa gabbiani con la cartapesta. Il tutto scandito dalla musica di quegli anni (Jim Morrison, i Nomadi, Shel Shapiro e i suoi Roks, Lucio Battisti) e dalle citazioni di Mao Tze Tung e  Che Guevara.

L’occupazione ovviamente è vissuta in modo diverso dai singoli protagonisti: qualcuno ci crede di più, altri all’ inizio lo fanno solo per sentirsi anticonformisti; ognuno partecipa al movimento studentesco in base alla propria storia personale e alla propria estrazione sociale: c’è il figlio dell’idraulico, il figlio dell’onorevole, la  femminista, l’artista….e allora vengono fuori le ansie, le paure, le incertezze, gli innamoramenti, misti all’euforia crescente per l’atto “rivoluzionario” di ribellione che stanno compiendo e che li vede eroici protagonisti; ed ecco che la forte volontà di crescita collettiva e di conoscenza riesce a cementare il gruppo, a dispetto delle incomprensioni o dei piccoli litigi e, in definitiva, tutti dimostrano di essere coraggiosi e di sapersi unire nelle difficoltà, nonostante le differenze caratteriali e non solo.

Ma sul finire della prima parte  della rappresentazione, attraverso un televisore di fortuna, arriva la notizia drammatica della strage di Piazza Fontana e su uno schermo scorrono, accompagnate dalle note di “Let it be”, le tragiche e commoventi immagini che hanno sconvolto un pezzo della nostra storia.

La seconda parte si apre con la stessa scuola occupata, 32 anni dopo, dai figli di quegli stessi studenti sessantottini, ma la scena è completamente diversa, perché la società  è profondamente cambiata: i giovani appaiono meno ribelli ed indipendenti, sono incapaci di vivere senza il loro telefonino, angosciati da genitori fin troppo “presenti” (madri che telefonano continuamente) o completamente assenti; se gli idoli dei padri erano i calciatori e la partita di pallone, i figli come idoli, invece, hanno la televisione ed il mondo dello spettacolo, sono diventati insicuri, fragili, figli di quei genitori che, ironia della sorte, hanno abbandonato i loro sogni di cambiamento e si sono “venduti al sistema”; questi giovani non hanno più nulla di rivoluzionario  e, se i padri nel ’69 intonavano (con bella voce, peraltro!) la canzone di Carlos Puebla “Hasta siempre comandante” facendone un inno programmatico, loro negli anni Duemila preferiscono scaricare le loro ansie ballando al ritmo della musica techno, con abiti all’ultima moda.

Così vengono messe a confronto due generazioni, entrambe vissute in due periodi diversi, il primo caratterizzato dall’anticonformismo, il secondo dall’omologazione e, in mezzo, tanti ideali che sono sfumati miseramente, traditi dal sistema economico finanziario, dalla globalizzazione, da sconvolgimenti storici più o meno importanti. E il principale motivo di riflessione è proprio fornito da come, attraverso i loro figli, veniamo a conoscenza degli esiti dei percorsi dei protagonisti dell’occupazione sessantottina e della loro insospettabile accettazione di quei principi che tanto avevano combattuto.

Il cast, diretto da Claudio Boccaccini e in parte rinnovato rispetto all’ultima edizione, è composto da 17 giovani attori (alcuni figli d’arte) che sono uno spettacolo nello spettacolo e riempiono la scena con la loro energia, il loro linguaggio “colorito” e la loro vitalità, sono sicuri, brillanti e strappano indistintamente risate ed applausi; ciascun personaggio ha un carattere particolare, un proprio stile adolescenziale, una sua nota comica, un modo tutto personale di “fare l’occupazione” e dare un significato a questo gesto. Li ricordiamo in ordine alfabetico: Grace Ambrose, Lucia Clementi, Alessio D’Amico, Federica Di Cori, Laura Forcella, Giorgio Gafforio, Guido Goitre, Filippo Laganà, Valentina Leoni, Federico Le Pera, Sofia Panizzi, Edoardo Proietta, Lorenzo Quaglia, Guido Quaglione, Paolo Roca Rey, Romana Maggiora Vergano, Diana Zagarella.

La commedia di Clementi, coniugando profondità tematica ad ironia linguistica, riesce a regalarci con straordinaria efficacia uno spaccato di un periodo storico che, per chi non lo ha vissuto, offre un’ occasione preziosa per non dimenticare; non c’è assolutamente critica o svalutazione, perché egli guarda ai suoi personaggi con affetto e tenerezza, rappresentando la giovinezza,  quella particolare stagione della vita così spontanea, appassionata, e prorompente, caratterizzata (nel bene e nel male e al di là di tutto) da una ingenua purezza di fondo che, purtroppo, si perde nell’età adulta. Anche se nel confronto di generazioni emerge sicuramente una differenza di valori e di convinzioni, i padri e i figli sono accomunati e meno distanti perché entrambi,  crescendo, hanno perso gli ideali di gioventù, ma soprattutto perché in loro restano  simili i sogni, le aspettative, i sentimenti. Il messaggio che si intuisce questi giovani vogliono lanciare nel finale è che le emozioni, quelle collettive quanto quelle individuali, vanno vissute e al contempo si deve usare la razionalità per non dimenticare mai il valore della vita e che, anche nei momenti drammatici, la speranza va riposta in un sogno, uno di quelli che ognuno di noi deve avere la possibilità di sognare nelle proprie “belle notti”, fatte di momenti irripetibili ed unici, che sono solo nostri e perciò sono indimenticabili; ed è proprio in queste situazioni personali (se non intime) che il pubblico, giovane e meno giovane, si potrà ritrovare e riconoscere con un pizzico di rimpianto e nostalgia.

Le belle notti” farà sorridere chi il ’68 l’ha vissuto in prima persona e anche i giovanissimi di oggi, che hanno un umorismo affine a quello dei protagonisti della storia, studenti liceali che dialogando, spesso, facevano battute, usavano un vocabolario “colorito” e si prendevano un po’ in giro quarant’anni fa come accade oggi;  lo spettacolo nello stesso tempo, però, fa riflettere sul difficile ruolo dei genitori, e degli adulti in generale, sull’importanza della famiglia e della scuola, delle scelte singole e collettive, e lo fa con garbo, senza giudicare, puntando sulla coralità dell’azione.