Andare sempre avanti o fermarsi a riflettere?

[rating=3] Sigla del telegiornale, le notizie si susseguono, la televisione blatera soltanto al divano che le sta davanti. Il resto della cucina resta immobile, circondata da una carta da parati celeste con sopra delle nuvole bianche e leggere, un cielo limpido e smisurato. Già la scenografia, che non occupa tutto il palcoscenico ma soltanto una parte, riassume bene il contrasto che si vedrà nel resto dello spettacolo fra la quotidianità e l’esistenzialismo, la casa e il mondo esterno, fra “cosa mangeremo per cena?” e come mai esistiamo, fra il continuare a vivere in modo apatico e il chiedersi se non sia meglio scendere da questa immensa giostra che è la vita. Nessun sipario, nessuna barriera si frappone, ma anzi una scala, che invita quasi a salire e collega direttamente il pubblico a quello che sta per succedere sul palco.

La scenografia dello spettacolo “Buonanotte mamma” al Duse di Bologna è particolare seppur molto semplice; Jessie, interpretata dall’argentina Marcela Serli, entra in scena nervosa, taglia il palco da una parte all’altra mentre sua madre Thelma, la brava Ariella Reggio, si accomoda davanti al televisore in attesa che la figlia le faccia la manicure. Una scena totalmente ordinaria, che si è ripetuta mille volte prima, ma che stasera ha un gusto diverso. Jessie chiede dov’è la pistola di suo padre, perché alla fine della serata darà la buonanotte alla sua mamma e si ucciderà.

La rivelazione shock viene dapprima sottovalutata dalla madre, “sei proprio spiritosa!”, ma si capisce subito che la figlia non sta scherzando. Thelma si colora di tutte le reazioni possibili alla sventurata notizia: parte con l’ovvia incredulità, poi per un decimo di secondo passa alla rabbia per la sua serata rovinata, cercando di chiamare l’altro suo figlio Dany che però non è invitato alla “festa”. Inizia quindi a smontare i propositi della figlia dapprima in modo superficiale, “che ne sai tu della morte? Magari è una sveglia per sempre!” contrapposta all’agognata calma mortale, fino alle ripicche da bimba, “non puoi farlo con i miei asciugamani, con la mia pistola, in casa mia!”. La implora egoisticamente di non lasciarla sola e si sforza di farle rivivere i bei momenti che hanno passato insieme. La figlia sembra irremovibile: un matrimonio fallito alle spalle, un figlio che non sa discernere fra bene e male ma anzi è un mezzo delinquente, la sua quotidianità con sua madre, i giorni tutti uguali, una vera prigione dalla quale non riesce ad evadere a causa anche della sua malattia, l’epilessia. Il testo di Marsha Norman, Premio Pulitzer nel 1983, è molto profondo, oscilla sapientemente tra il quotidiano, “cosa ti ho fatto?!” “niente, la vuoi una liquerizia?”, e il labirinto senza uscite della vita, un mondo grigio dove però non c’è spazio per la depressione. Jessie non vede tutto nero, si limita ad osservare la sua vita che in realtà è dipinta di quel colore, lei semplicemente lo nota e ne rimane ferita, non fa finta di niente, ha il coraggio di fermarsi e di contemplarlo.

La madre ovviamente cerca di confortarla e di scuoterla in ogni modo anche se talvolta sembra darle ragione: “la vita è bella, fai le cose che vuoi”, e cosa può fare Jessie secondo lei? Uncinetto, cruciverba, giardinaggio, shopping, comprare un servito di piatti nuovo, “spostiamo i mobili”. Tutte queste attività appaiono drammaticamente futili rispetto al vuoto che dovrebbero colmare. In altri occasioni è più efficace, “se hai il coraggio di morire, lo hai anche per vivere!”, portando la figlia quasi a vacillare. Il testo allora va in profondità, investiga sui rapporti di Jessie con la malattia, con il padre, con il marito e sulla contrapposizione con la madre; le tinte drammatiche fanno emergere verità inconfessabili che la vita quotidiana avrebbe mantenuto nascoste, come l’inquinamento luminoso copre le stelle. Mentre Jessie racconta la mancanza di appigli per restare ancora su questa terra, ci fa anche vedere il vuoto che la circonda prendendo ogni oggetto sulla scena e portandolo in cantina, che si trova davanti alla prima fila, in platea. Vi ripone la televisione, la lampada, le sedie e tutto quello che gli capita a tiro di ciò che la circonda, svuotando la quotidianità di ogni suo elemento e mostrando cosa ci sta dietro: il niente. Serena Senigaglia, la regista dello spettacolo, utilizza questi oggetti in modo innovativo, il pubblico intimamente è come se fosse la mente di Jessie, è la “sua cantina”, il luogo dove lei si rifugia per pensare e dove ripone le cose del quotidiano che le impediscono di riflettere. L’epilogo, preceduto da un monologo struggente della madre e che quindi risulta incerto fino alla fine, si svolge su una scena senza ormai più niente, tranne le due attrici, la pistola ed il telefono.

Ariella Reggio è molto brava nei panni di Thelma, è appassionante, passa da un’emozione all’altra con facilità, fino alla “requisitoria finale” dove risulta a tratti commovente. Marcela Serli sul palcoscenico sa il fatto suo, ma quando viene sul proscenio, scende nella “sua cantina” e ci guarda diritti negli occhi, non è così abile a “foderare” di emozioni quei non facili momenti, si porta dietro la decisione e la freddezza precedente, mentre lì, forse solo per un istante, ci dovrebbe donare le sue debolezze, le sue indecisioni, le sue paure.

Applausi e affluenza di pubblico per uno spettacolo drammatico ma che non disdegna qualche inserimento di comicità e di ironia.

1 COMMENTO

  1. Non condivido per niente il commento del redattore a proposito di Marcela Serli. Quando “scendeva in cantina” piangeva lacrime vere, che io dalla seconda fila riuscivo a vedere perfettamente. E quella tristezza senza schiamazzi, rendeva il personaggio ancora più credibile, più profondo.
    Bellissimo spettacolo.
    Bravissime le attrici.

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