
[rating=3] Verismo? Certo, certo, certo…
Certo, questo Pagliacci barese qui al Petruzzelli trova ambientazione in un manicomio giudiziario, e cosa c’è di più duro e vero e reale di questo? La scena (unica per tutto lo spettacolo) ne riproduce un cortile, spazio affamato d’aria costretto com’è dalle alte, altissime mura grigie, che alcuno spazio non lasciano al cielo. In tale angusto e claustrofobico hortus conclusus si muovono tutti i personaggi del dramma, i quattro guitti girovaghi, l’amante di lei, il pubblico del villaggio calabro: tutti detenuti in questa patria triste e priva – come un girone infernale – di qualsivoglia speranza. Il regista Bellocchio – è l’arte sua – inserisce in siffatto mondo sconsolato e cupo e fosco lampi di luce di proiezioni cinematografiche sullo scrostato muro di fondo: e sono video delle telecamere di sicurezza nelle celle dei quattro guitti, oppure primi piani degli stessi che si truccano per la recita a ventitré ore, la torva faccia di Canio che medita vendetta, ma – anche – cieli d’infinito azzurro a sottolineare la fame d’aria di Nedda e lo sconfinato suo desiderio di libertà.
Certo, Bellocchio ripristina decisamente i complessi piani narrativi voluti dall’autore, che sono in effetti tre, e non due come normalmente si dice e si scrive e si crede: il primo piano narrativo è quello che narra la vicenda dei girovaghi, di Canio, Nedda, Tonio e Beppe, di Silvio, del paese abruzzese, dell’omicidio di Nedda; si annida in questo livello il secondo piano narrativo, la recita, cioè, di Colombina, Arlecchino, Pagliaccio e Taddeo. Esiste però il terzo piano narrativo, quello escogitato da Leoncavallo con l’invenzione del Prologo, – e che potremmo chiamare livello di realtà – affidato all’attore che interpreta Tonio/Taddeo, ma che non è – appunto – personaggio della vicenda, e che invece se ne distacca risolutamente: è un uomo vero in carne ed ossa che parla a noi – il pubblico reale – sullo stesso nostro piano.
Si noti che lo stesso attore chiude il cerchio e il dramma intero con la famosa battuta: La commedia è finita, tornando improvvisamente al livello di realtà (si noti per inciso che Bellocchio torna alla versione prevista da Leoncavallo, come si può controllare sulla partitura autografa conservata alla Library of Congress, in cui, appunto, l’ultima battuta viene pronunciata da Tonio; la tradizione comune, invece, che si deve al “sopruso” tenorile del grande Caruso, fa pronunciare la frase famosa a Canio, facendone così smarrire o, quantomeno, trasmutare il senso). Questo ritorno al livello del reale consente a Bellocchio, a fine recita, ma a sipario ancora aperto e con l’orchestra che ancora suona, di far rialzare i protagonisti del dramma – gli appena uccisi, cioè, Nedda e Silvio – e avviarsi verso il fondo del palcoscenico: in questo nessuna incongruità.
Certo, il regista complica ancora un po’ la cosa con i suoi prepotenti interventi filmici e con la stessa ambientazione manicomiale. Le proiezioni costituiscono infatti un ulteriore livello narrativo, che interseca gli altri e che li attraversa come onnisciente occhio sulle coscienze dei personaggi, a sottolineare i reconditi pensieri con l’uso dei primi e primissimi piani, tecnica evidentemente non teatrale, bensì cinematografica, per cui la messa in scena subisce un’ulteriore, definitiva contaminazione, tra realtà, dramma verista, commedia dell’arte, film. L’ambientazione manicomiale, poi, se ben rende il dramma dei poveri guitti, costretti in un ambiente costituito da mura che incombono su di loro come su certi tristi personaggi di Sironi, che si misurano con smisurate architetture possenti e meste e glaciali, d’altro lato rende del tutto incongrui certi passaggi: che ci fanno, entro quelle tristi mura, bambinelli in gita scolastica accompagnati da suorine canterine? E quel coro del Dindon degli zappatori, già così fuori posto nell’ambiente calabrese di Montaldo, diventa ancor più assurdo cantato da detenuti che marciano in cerchio (chiara citazione de La ronda dei carcerati di Van Gogh: chissà se anche a Saint-Rémy si cantava Tutto irradiasi di luce, d’amor. Ma i vecchi sorvegliano gli arditi amador?).
E se non fosse verismo? Certo…
Certo, proprio queste evidenti elementi incongrui potrebbero portare a una diversa lettura della regia di Bellocchio. E se fosse tutto un sogno – un incubo, in verità – che l’inconscio di Canio mette in scena a distanza di tempo dai fatti? Un nido di memorie: Bellocchio è uomo di cinema e certo conoscerà il film (si chiamava proprio Pagliacci) di Giuseppe Fatigati del ’42 con Alida Valli nella parte di un’ipotetica figlia di Canio e Nedda che incontra il padre che esce dal carcere dopo vent’anni. Al di là del paragone improprio (trattasi di vero polpettone d’epoca), si vuole sottolineare però la possibilità – già ingenuamente ipotizzata dal cinema – di una rivisitazione del dramma a distanza di anni, un lungo flashback nella contorta e folle mente del protagonista. Troverebbero cittadinanza, se ciò fosse vero, anche le incongruenze, le suorine, i bambini, i detenuti che cantano il Dindon, tutto trasfigurato e trasognato e rimescolato – appunto – in un inconscio lavorìo del sogno.
Al di là delle freudiane interpretazioni, il lavoro è comunque notevole e interessante, anche coronato com’è da eccellenti musicisti. Che dire, della direzione di Paolo Carignani, se non che si distacca certamente dalla solita interpretazione di Pagliacci, trovando una misura tragica e nervosa al tempo stesso, sottolineando l’esasperato verismo e la raffinatezza dei cromatismi del buon Leoncavallo? Stuart Neill è, semplicemente, un grande Canio. L’avevo ascoltato l’ultima volta a Napoli nella Cavalleria rusticana di Delbono, e devo dire che mi fece già allora notevole impressione ma è di gran lunga ancora cresciuto: grande bellezza del timbro, ampia potenza della voce, presenza scenica particolare che, certo, rischia di renderlo credibile solo per determinate parti: tra di esse, sicuramente Canio. Meno potenza ha la voce, invece, della giovane Maria Katzarava, che però ci restituisce una Nedda dal bel timbro vocale e soprattutto dal gran temperamento. Alberto Gazale si produce in un Tonio dalla voce un po’ affaticata ma dalla grande padronanza scenica; sostanzialmente buona la prova di Francesco Marsiglia (Beppe), mentre Dario Solari disegna un credibile Silvio (e se ne sentiva l’esigenza), dalla morbida voce: anche lui lo ricordiamo nel Pagliacci (per la regia di Finzi Pasca, al San Carlo qualche estate fa), ma nella parte di Tonio. Per tutti ci sono stati lunghi e calorosi applausi, alla fine, soprattutto da parte del giovanissimo pubblico che affollava i palchi del Petruzzelli.
A questo proposito, mi sia consentita una breve digressione, a conclusione di questo bel Pagliacci: ho visto – appunto – un pubblico molto giovane, che assiepava i palchi, come già mi era capitato altre volte, ultimamente, qui al Massimo barese (penso risponda a saggia politica della direzione dello stesso teatro). Come già altre volte, m’è capitato di temere – lo confesso – il chiasso che avrebbero potuto fare: sempre sono stato con gran piacere smentito: hanno ascoltato l’opera in grande concentrato silenzio, applaudendo – con moderazione – ove andava applaudito e scatenandosi con grande entusiasmo solo alla fine. Fa bene al cuore, vedere tutto ciò, per loro e per il teatro che li ha ospitati, dando a questi ragazzi la grande opportunità di accostarsi nel modo corretto alla buona musica e alla vera cultura; ricordavo come, alla loro età, fossero così scarse queste possibilità, e come andassi saziando la mia fame di musica solo attraverso i dischi (nessun DVD, all’epoca, e soprattutto niente YouTube). Pagliacci, per esempio, ricordo di averlo ascoltato – e imparato a memoria – per la prima volta proprio attraverso un’incisione regalo di mio padre che foraggiava la mia passione pur senza condividerla (caratteristica, questa, dei buoni genitori). E così, senz’aver mai visto un teatro d’opera, mentre ascoltavo la musica immaginavo, e costruivo scenari, e avidamente sognavo un mondo di perduti villaggi calabresi e tristi guitti multicolori dalla faccia infarinata.